Grazie alla rivoluzione industriale, gli ultimi tre secoli sono stati caratterizzati da un progresso economico e sociale che non ha paragoni nella storia. Intere società, quella occidentale in primis, hanno raggiunto in breve tempo alti livelli di benessere, educazione, democrazia e salute. Allo stesso tempo, però, molti pilastri su cui è basata la cultura del profitto hanno fatto il loro tempo, diventando oggi obsoleti e dannosi per l’intera umanità.
Mi riferisco a due aspetti in particolare: all’assunto che le risorse naturali siano infinite; e alla ricerca costante, propria delle economie di scala basate sulla standardizzazione, di minimizzare i costi. Se per il primo è ormai palese – sebbene in molti non vogliano ancora capire – che la natura ha i suoi tempi e siamo noi a doverli rispettare, il secondo aspetto è in grado di generare, sotto molti punti di vista, delle conseguenze negative che spesso non sappiamo a cosa imputare.
Questa premessa per dire che la logica neoliberista, imperante in Occidente da almeno 40 anni, ci ha portato a conoscere il prezzo di tutto, diseducandoci però sul vero valore di molti beni, anche primari. L’allontanamento delle società dalla produzione e trasformazione del cibo, per esempio, ha interrotto quella naturale trasmissione di saperi che fino a pochi decenni fa avveniva fra le mura domestiche. Le conoscenze che ogni bambino apprendeva su cosa e come mangiare passavano in maniera naturale da madre in figlia, da padre in figlio.
Questo distacco dagli alimenti, e quindi dagli ecosistemi in cui noi stessi viviamo, si manifesta anche nell’impatto che essi giocano sul cambiamento climatico: il 37% delle emissioni di gas climalteranti deriva direttamente dal sistema alimentare globale. Carnefice, ma anche vittima, in quanto la produzione di cibo è il primo settore a risentire gravemente di effetti quali siccità, desertificazione ed eventi climatici sempre più violenti. E dato che tutto è connesso, a cascata ci troviamo ad affrontare l’insicurezza alimentare in molti territori, migrazioni climatiche, sfruttamento dei lavoratori e un costante crescere di violenze.
Questo è solo un esempio per riassumere cosa significhi un’attenta valutazione degli alimenti che portiamo in tavola. Molto spesso dietro al basso costo del cibo si nascondono retribuzioni misere per i lavoratori e i contadini; pratiche di produzione che rendono infertile il suolo; metodi di trasformazione che, processando chimicamente materie prime scadenti, risultano nocive per la nostra stessa salute.
Per questo, e per molto altro ancora, Slow Food e l’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo hanno da poco lanciato una mobilitazione per chiedere al governo italiano che l’educazione alimentare possa rientrare come insegnamento nelle scuole di ogni ordine e grado. Sono convinto che questa iniziativa trovi l’appoggio di tutte quelle persone che hanno a cuore il bene delle comunità e la salute del Pianeta.
Chiedo dunque di supportare questa campagna leggendo, firmando e condividendo l’appello “Conoscere per scegliere” attraverso questo link: appelloeducazionealimentare.it/appello
Solo mettendo in mano alle giovani generazioni corrette conoscenze e sana consapevolezza potremo garantire loro un futuro meno incerto e avviare una nuova era che in molti stanno già identificando con il nome di “transizione ecologica”.
Carlo Petrini, fondatore di Slow Food