Festa in tavola

Le domande sul Natale e le risposte dello storico dell’Università di Bologna Massimo Montanari e di Irene Berni, autrice di alcuni libri dedicati all’arte di ricevere

Il Natale comincia e finisce a tavola. È la sintesi “prosaica” del periodo delle feste che ci si prospetta davanti. La centralità gastronomica è innegabile, con tutto quello che ne consegue, compresi i chili di troppo (a quelli penseremo a gennaio). 

Ma la tavola non è fatta solo di cibo, bensì di atmosfera, accoglienza, convivialità e tradizione. «Ogni festa, in ogni periodo dell’anno, civile, religiosa o di qualsiasi altro tipo, ha sempre trovato un suo corrispettivo gastronomico. Il cibo è stato sempre (e tutto sommato è ancora) il modo più semplice, e al tempo stesso più denso e significativo, di esprimere gioia e felicità in modo collettivo – spiega lo storico dell’Università di Bologna Massimo Montanari, autore di tanti saggi sul cibo nelle epoche passate -. Magari non ci pensiamo sempre, soprattutto oggi che il cibo sembra un’ovvietà. Ma non c’è vita senza cibo, e condividerlo significa condividere la vita, le sue fatiche e le sue gioie».

Pranzo o Vigilia? 

Il primo dilemma da sciogliere è quando festeggiare: la Vigilia o il 25 a pranzo? In realtà non è propriamente una scelta, perché ciascuno porta avanti le proprie tradizioni familiari che poi si incrociano con quelle delle persone con cui ci accompagniamo: «Teoricamente si dovrebbero festeggiare l’una e l’altro. La Vigilia con un pasto di magro, cioè senza carne, il Natale invece con un pasto a base di carne – aggiunge Montanari -. Questa diversità è legata alla tradizione, nata fin dal Medioevo nei Paesi di tradizione cattolica, di scandire l’anno – e i giorni della settimana – in periodi (e giorni) di magro e di grasso, senza carne e con carne. Le feste sono per definizione da celebrare con la carne, ma sono precedute da un giorno in cui la carne è bandita. La maggiore importanza di questa o quella ricorrenza (la Vigilia o il Natale) dipende dalle regioni e dagli usi locali. In generale nel Sud Italia si dà maggiore importanza alla cena della Vigilia, mentre al Nord si punta con maggior convinzione sul pranzo di Natale». 

Se il Natale è oggi, almeno in tavola, festa per tutti, per secoli il cibo è stato uno strumento di differenziazione sociale, «non solo nella realtà, ma anche sul piano ideologico. A ciascuno si riteneva che spettassero certi cibi: ai contadini le verdure e i cereali, ai signori la carne; ai contadini semmai il maiale, ai signori la selvaggina; eccetera. Questa ideologia, fortemente strutturata, è venuta meno a partire dal Settecento quando qualcuno si è inventato la curiosa idea che gli uomini sono tutti uguali – prosegue Montanari -. La rivoluzione illuminista ci ha fatto fare un bel passo in avanti, anche se le differenze di fatto continuano a esistere: ricchezza e povertà ci sono ancora, ed è chiara a tutti la differenza fra chi sul cibo è obbligato a risparmiare e chi invece può permettersi di scegliere prodotti di qualità, di discutere su quali vini abbinare, su quali ristoranti visitare».

Casa o ristorante?

Almeno per il 25 dicembre non c’è gara: vince la casa con grande distacco, perché è più intimo, fa più Natale e perché c’è sempre qualcuno che mette a disposizione almeno lo spazio, mentre gli altri cucinano. Dopo aver deciso quando, dove e con chi festeggiare, nella lista delle cose da fare si incrocia la parola atmosfera, quell’aria di Natale che non può proprio mancare. Anche in questo caso a partire dalla tavola e in particolare dall’apparecchiatura. Quale tovaglia tirar fuori dall’armadio? E perché non recuperare quel servito di piatti e bicchieri inscatolato in soffitta, troppo delicato per i pasti di tutti i giorni? Il momento è quello giusto perché si fa festa anche con gli occhi.

Rosso o oro?

Non è necessario omologarsi sui colori tradizionali del verde e del rosso, chi desidera cambiare può seguire i consigli di Irene Berni, autrice di alcuni libri pubblicati dalla casa editrice Guido Tommasi dedicati all’arte di ricevere (Quel che piace a Irene e I doni di Irene).

Il suo è un mondo delicato, antico e autentico, cioè rispettoso del contesto, dove predominano colori “polverosi” e un gusto retrò: «Per la tavola di Natale propongo i toni del verde spento e del bordeaux, ravvivati da tocchi d’oro e illuminati da tante candele per creare un po’ di magia». Secondo Irene, che ha prestato il suo stile al catalogo dei prodotti Fior fiore per Natale, la tavola è dedizione: «Chi cucina lo fa per gli altri, l’atto di preparare un piatto è esso stesso un regalo». 

Il segreto? Personalizzare !

Non tutti potranno sfoggiare bicchieri di cristallo, tovaglie di fiandra o piatti di porcellana, ma secondo Irene non è il valore degli oggetti che rende preziosa la tavola, bensì la capacità di far sentire ogni ospite a proprio agio: «Il segreto è personalizzare, ad esempio creando dei segnaposto dedicati o preparando dei piccoli regali per ciascuno dei nostri commensali, questo li farà sentire coccolati». Ad esempio scatoline con biscottini o cantuccini, oppure un bigliettino con la descrizione della ricetta proposta che ciascuno potrà poi replicare a casa propria.

«Altri segnaposto facili da realizzare con poca spesa e una minima manualità sono i sassi levigati raccolti al mare su cui scrivere il nome dell’ospite oppure piantine e arbusti secchi da spruzzare d’oro – spiega Irene -. O ancora piccole stelle di carta da posizionare accanto al piatto. Ultimamente mi sto dedicando al flower printing: possiamo raccogliere piante di stagione durante una passeggiata in un bosco o in un campo, poi li pressiamo sulla stoffa: regalano un’impronta tutta particolare, che ciascuno può ricreare secondo il proprio gusto».

Tradizione o innovazione?

Ma ritorniamo al cibo: lasagne o tortellini in brodo? Catalana di astice e gamberoni o vitella in crosta? Se la tradizione raccomandava un piatto specifico per ogni festività («Lasagne a Natale, torte di farro a Carnevale, cacio e uova per l’Ascensione, oca arrosto per Ognissanti, maccheroni il Giovedì grasso, maiale per Sant’Antonio, agnello a Pasqua», racconta Montanari parlando delle tradizioni medievali di cui si è occupato come storico), oggi la grande offerta dei supermercati permette ampia libertà di scelta.

Fanno parte della tradizione anche i cibi portafortuna, la frutta esotica e l’immancabile panettone. «Anche in questo caso si tratta di pratiche che risalgono molto indietro nel tempo. Mangiare lenticchie per l’ultimo o il primo dell’anno è un’usanza che si ritrova già anticamente, legata a una cultura magica o pseudo-magica, un tempo vissuta con grande coerenza culturale, oggi rimasta a livello residuale. Che porti fortuna, qualcuno lo crede davvero?» chiarisce lo storico Montanari. E la frutta esotica? In occasioni speciali la si consumava già nel Medioevo. «La differenza, fra allora e oggi, è che un tempo era ben chiaro a tutti che certe cose venivano da lontano e costavano tanto, dunque erano un segno di distinzione; oggi invece sono a buon mercato e si trovano a basso costo, dunque sono accessibili a tutti. Di conseguenza sono i cibi “locali” a comparire con maggiore frequenza sulle tavole dell’alta società». 

Infine, il panettone, simbolo di una “tradizione” che si è formata in tempi recenti grazie ai mezzi di comunicazione di massa: «Ancora cento anni fa era percepito come un dolce natalizio milanese: l’arrivo della televisione e della pubblicità ha scardinato una serie di usi locali, portandolo su tutte o quasi le nostre tavole». Ecco come nasce una tradizione.

Frase in evidenza

“Convivio”: mangiare insieme, etimologicamente significa vivere insieme.

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