A Calci gli anziani del paese ancora ricordano lo spatiamentum dei monaci certosini, lo “spaziamento”, ovvero la passeggiata settimanale, unico momento in cui potevano uscire dalla Certosa, anche se non potevano fare parola con gli estranei. Sono l’ordine monastico più inaccessibile, più ascetico, più contemplativo: nella Certosa di Calci sono rimasti fino al 1970. E quando erano ancora dentro il monastero, la Certosa era organizzata come una specie di città, dove non mancava niente. Poteva ospitare fino a quindici padri e fino a sessanta fratelli, che non potevano parlare tra loro, come da regola dell’ordine certosino, fatta eccezione per pochi casi: per esempio, nel parlatorio, oppure durante lo spaziamento, quando potevano esserci dei momenti di confronto. Per il resto, solo lavoro e preghiera, e nessun contatto col mondo: per le notizie veramente indispensabili, il priore provvedeva a comunicare agli altri quello che dovevano sapere. Visite dei parenti, neppure: una volta che si entrava nella Certosa, si perdeva anche la possibilità di continuare a frequentare la famiglia.
I padri passavano gran parte del tempo nelle loro celle, che in realtà erano degli appartamenti anche piuttosto grandi per l’idea che nell’immaginario comune si ha delle celle dei monaci: avevano a disposizione una camera per dormire e raccogliersi in preghiera, una sala dove poter pranzare, un altro ambiente da dedicare alle attività manuali, un bagno, un orto. I fratelli invece si occupavano del funzionamento di tutto il complesso: c’erano quelli addetti al frantoio, quelli che gestivano la farmacia (che, peraltro, in antico riforniva tutto il paese), chi curava gli orti, chi preparava da mangiare per tutti gli altri. Le vivande venivano portate direttamente nelle celle: c’era una sorta di finestra dove venivano lasciate e ritirate. Solo una volta la settimana, tipicamente la domenica, padri e fratelli desinavano assieme nel refettorio, dov’è conservata la più antica opera dell’intera Certosa, l’Ultima cena di Bernardino Poccetti del 1597: ma sempre senza poter parlare.
Anche la preghiera era per lo più individuale: nella grande chiesa ci si recava solo per cantare le lodi. E nella spettacolare chiesa seicentesca, le decorazioni di Antonio e Giuseppe Rolli che avvolgono tutte le pareti e portano i fedeli al centro delle storie del Vecchio Testamento, e poi ancora gli affreschi della cupola di Stefano Cassiani, la pala d’altare di Baldassarre Franceschini detto il Volterrano, aiutavano i monaci a meglio contemplare la divinità. Da qui, dalla grande chiesa a navata unica, passando davanti alla tela del Volterrano sull’altare maggiore in marmo, opera di Giovanni Francesco e Alessandro Bergamini, si arrivava alle cappelle dove i monaci celebravano la messa quotidiana. E sempre percorrendo i corridoi, si finiva per arrivare alla Foresteria Granducale: erano gli ambienti destinati ad accogliere i granduchi di Toscana, che furono sempre molto legati alla Certosa di Pisa (vi si può ancora vedere il letto dove Pietro Leopoldo di Lorena, il granduca che abolì la pena di morte, dormiva con la moglie Maria Luisa di Borbone).
Poi, come detto, nel 1970 gli ultimi monaci hanno lasciato la Certosa e da allora il complesso è diventato un museo, gestito in parte dal Ministero dei Beni Culturali (che ha in cura gli ambienti monumentali) e in parte dall’Università di Pisa, che in un’ala del complesso, dove erano ospitate alcune delle celle dei fratelli, ha stabilito la sede del Museo di Storia Naturale, uno dei più grandi del mondo ma anche uno dei più antichi, dal momento che fu fondato nel 1591. È più antico dell’opera più antica che si conserva nella Certosa, per intenderci. Al suo interno, collezioni di esemplari di diversi tipi di animali, scheletri di cetacei completi, dinosauri, diorami dall’Ottocento in avanti, la galleria di acquari d’acqua dolce più grande d’Europa. C’è anche una delle più spettacolari wunderkammer che esistano al mondo, di origine seicentesca: vedere le sue vetrine coi rametti di corallo, con curiosità dal mondo animale e vegetale, con minerali e conchiglie e con ogni genere di bizzarria, è come compiere un viaggio indietro di quattro secoli, per arrivare al tempo in cui si diffuse in tutta Europa l’interesse per la scienza che avrebbe portato alla nascita del metodo moderno, con figure straordinarie come quella di Galileo Galilei, che peraltro era pisano.
Dalla Certosa c’è poi una strada lunga e dritta che attraversa tutto il borgo portando i viaggiatori al capo opposto. Si passeggia tra gli ulivi, si oltrepassano il municipio, la piazzetta con la banca e l’unico albergo del paese, il ponte sul torrente Zambra distrutto dai tedeschi durante la guerra e poi ricostruito grazie alla tenacia degli abitanti, il circolo dove ancora campeggia lo stemma del Partito Comunista Italiano e si giunge infine all’altro monumento importante di Calci, la pieve romanica dei Santi Giovanni ed Ermolao, edificata verso la fine dell’undicesimo secolo. Una sobria facciata in stile romanico pisano e un tozzo campanile quadrangolare fanno da scenografia a un edificio austero, piuttosto spoglio, a impianto basilicale, diviso in tre navate con archi e pilastri decorati a fasce bianche e nere.
Dentro, le reliquie di sant’Ermolao, opere di Aurelio Lomi, di Jacopo di Michele detto il Gera e di altri artisti minori. E poi, uno straordinario fonte battesimale del dodicesimo secolo: una specie di vasca in marmo decorata con la figura di Gesù al centro, e ai lati san Giovanni Battista, la Madonna e due angeli. È una delle più importanti testimonianze della scultura d’area pisana e lucchese del tempo. Vicino, una targa marmorea del 1947 impone che “resti scolpito nel marmo” il gesto generoso di tal Manetti Eugenio, un cittadino di Calci che risiedeva in America ma che, sempre legato almeno sentimentalmente al borgo natio, dopo le devastazioni della guerra volle inviare al parroco la somma di duecentomila lire del tempo per restaurare l’organo. L’equivalente di circa quattromila euro di oggi. Piccoli, grandi gesti di cui è piena la storia dell’arte di quel tempo, e di cui, in questa pieve romanica, s’è voluto serbare il ricordo in perpetuo.
Toscana da scoprire è una collaborazione iniziata a luglio tra Informatore e Finestre sull’Arte, testata giornalistica che si occupa di arte antica e contemporanea, per raccontare ogni settimana sul sito dell’Informatore i più bei borghi toscani ancora da non perdere.