«Futuristicamente mangiando si opera con tutti e cinque i sensi: tatto, gusto, olfatto, vista, udito.» (La cucina futurista, Marinetti-Fillia).
Il 28 dicembre 1930 viene pubblicato sulla Gazzetta del Popolo il Manifesto della cucina futurista di Filippo Tommaso Marinetti. Il mese precedente, il 15 novembre, si era svolto un banchetto al ristorante “Penna d’oca” durante il quale lo stesso Marinetti aveva trasmesso via radio l’annuncio di una rivoluzione gastronomica.
Le origini di questo vibrante fermento che investe il mondo della gastronomia vanno ricercate (come già era avvenuto per la nascita del Futurismo stesso) nel clima culturale francese e specialmente nei salotti parigini, di cui Marinetti era assiduo frequentatore: già nel 1913 Guillaume Apollinaire aveva pubblicato il manifesto Le cubisme culinaire, dove parlava di astronomismo, sostenendo che «la cucina astronomica è un’arte, non una scienza»; nello stesso anno, ancora a Parigi, Jules Maincave pubblicava La cuisine futuriste con l’obiettivo di generare «sensazioni gustative inedite».
L’avvio del movimento italiano avviene dunque più di un decennio più tardi, ma si rivela senz’altro sin da subito pronto a rivoluzionare la norma gastronomica. Ne La cucina futurista di Marinetti e Luigi Colombo, (in arte Fillìa), pubblicata nel 1932 a Milano, per i tipi di Sonzogno, si legge chiaramente l’intento di ribaltare il modello della cucina italiana (che, naturalmente, significa anche artusiana):
E della vecchia cucina – domando a Fillìa – cosa rimarrà in piedi?
Mi risponde con tono inesorabile: Niente, appena le vecchie casseruole. È finito il tempo delle pietanze dell’Artusi. Saremo duri.
Nel Manifesto della cucina futurista, in cui si sostiene che «pur riconoscendo che uomini nutriti male o grossolanamente hanno realizzato cose grandi nel passato, noi affermiamo questa verità: si pensa si sogna e si agisce secondo quel che si beve e si mangia», la volontà di ribellarsi alla tradizione risulta evidente nella celeberrima guerra alla pastasciutta, piatto assurto a emblema della cucina tradizionale: pietanza colpevole dell’imbolsimento degli italiani, nemica del dinamismo e della religione della velocità, che secondo i futuristi doveva caratterizzare l’uso moderno, la pastasciutta è definita «assurda religione gastronomica italiana».
Al suo posto, si incoraggia il consumo del riso, per favorirne la produzione italiana, secondo una concezione per cui la pasta sarebbe antivirile, il riso patriottico: «ricordatevi poi che l’abolizione della pastasciutta libererà l’Italia dal costoso grano straniero e favorirà l’industria italiana del riso», scrive ancora Marinetti.
Il distacco dalla tradizione promulgato dai futuristi riguarda vari aspetti: coinvolge e investe, oltre alla scelta dei cibi e alla loro preparazione (le ricette son chiamate «formule» e sono spesso accompagnate dai disegni dell’autore), anche lo svolgimento dei banchetti e l’aspetto della pietanza quando viene servita. Ne La cucina futurista si legge che «bocconi simultanei e cangianti […] avranno nella cucina futurista la funzione analogica immensificante che le immagini hanno nella letteratura».
Data l’importanza che la cucina futurista conferisce a tutti e cinque i sensi, i banchetti futuristi sono dei veri e propri eventi spettacolari, realizzati entro cornici sceniche in cui l’atto del mangiare è accompagnato da profumi, spruzzati dai camerieri sui commensali, da rumori e da strofinamenti di tessuti: si pensi all’Aerovivanda, che va mangiata con la mano destra mentre con la mano sinistra si strofina una tavola di carta vetrata, velluto e seta, e mentre i camerieri, tra una portata e l’altra, spruzzano profumi sui commensali, per il trionfo della sinestesia.
Naturalmente, a queste esigenze rivoluzionarie si accompagna un nuovo lessico: se in parte la terminologia gastronomica è costituita da persistenze del primo futurismo (tavola parolibera marina, parole in libertà), si creano anche nuove parole. Tra queste, gran parte risulta dal tentativo autarchico di tradurre in italiano i termini stranieri: il maître d’hotel è chiamato guidapalato, la poltiglia è il puré, peralzarsi indica il dessert. Parlando dunque in termini futuristi, immaginiamo di andare al quisibeve (bar) e ordinare al mescitore (barman), dopo una rapida occhiata alla lista (menu), una fresca polibibita. Oppure, approfittando di una bella giornata primaverile, potremmo organizzare un pranzoalsole (picnic) e goderci un ottimo traidue (sandwich).
( a cura di Chiara Murru)
Riferimenti bibliografici
- Rosario Gennaro, Creatività e dinamismo in tavola. La cucina futurista di Marinetti e Fillia, in Soavi sapori della cucina italiana, Atti del XIII convegno dell’AIPI, 2000, Firenze, Franco Cesati Editore, pp. 317-329.
- Claudia Salani, Cibo futurista. Dalla cucina nell’arte all’arte in cucina, Roma, Stampa alternativa, 2000.
- Maria Concetta Salemi, La cucina futurista, Firenze, Libri Liberi, 2003.
- Stefania Stefanelli, Il lessico della cucina futurista, in Robustelli Cecilia, Frosini Giovanna (a cura di), Storia della lingua e storia della cucina. Parola e cibo: due linguaggi per la storia della società italiana, Atti del VI Convegno internazionale ASLI, Franco Cesati Editore, Firenze Robustelli, Frosini (a cura di) (2008), pp. 513-529.