A metà Ottocento la zona di Piagentina, appena fuori le vecchie mura di Firenze, oltre Porta alla Croce, era una «campagna umida e modesta, lascia appena scorgere Fiesole o San Miniato» – come scrisse Telemaco Signorini -, lungo il corso del torrente Affrico (oggi interrato) che si gettava nell’Arno. Un piccolo mondo che con i suoi paesaggi e atmosfere, le coloniche e i contadini, le lavandaie e i renaioli, ispirò la cosiddetta Scuola di Piagentina del movimento macchiaiolo, e che ritroviamo immortalato in opere come La visita di Silvestro Lega o Arno alla Casaccia di Giuseppe Abbati.
Sono due delle oltre 130 opere de “I Macchiaioli”, retrospettiva che ha aperto l’8 ottobre a Palazzo Blu a Pisa, e presenta capolavori provenienti da collezioni private, e dunque solitamente inaccessibili, e da importanti istituzioni museali. Una mostra che offre molteplici suggestioni e percorsi, da un viaggio nel tempo attraverso i paesaggi di Firenze o Castiglioncello, alle opere che raccontano della nostra epopea risorgimentale e che sono state, fra l’altro, fonte di ispirazione anche per il cinema.
«I Macchiaioli si avventurano sulla via della luce, dipingendo la realtà loro contemporanea, nella semplicità degli scenari naturali di cui avevano diretta esperienza, a Venezia, La Spezia, Castiglioncello, Piagentina, per citare solo alcuni luoghi simboli del movimento», spiega la curatrice della mostra Francesca Dini.
Il vero attraverso il colore
A definire “Macchiaioli” quel gruppo di pittori che intorno a metà Ottocento si erano incamminati sulla strada di un rinnovamento in chiave antiaccademica della pittura italiana in senso realista fu, nel 1862, un recensore della “Gazzetta del Popolo”. Una definizione che voleva essere dispregiativa, giocando sul doppio senso di “darsi alla macchia” inteso come “agire furtivamente”.
A chiarire cos’era la macchia, è stato uno dei sostenitori del movimento, il critico Diego Martelli (che possiamo vedere in mostra nel ritratto di Diego Martelli a Castiglioncello di Giovanni Fattori): «Fu detto che la forma non esisteva e siccome alla luce tutto risulta per colori e per chiaroscuro così si volle solamente per macchie, ossia per colori e per toni, ottenere gli effetti del vero». In pratica, la distruzione del disegno secondo la tradizione accademica, e la scelta del colore come elemento determinante del quadro.
Il «fu detto» che Martelli cita esplicitamente fa riferimento al luogo di nascita di questa nuova pittura, al quale è dedicata la prima sezione della mostra: il Caffè Michelangelo a Firenze, nell’allora via Larga e oggi via Cavour. Qui, fra il 1855 e il 1866, quando chiude i battenti, discutevano animatamente i toscani Telemaco Signorini e Odoardo Borrani, Raffaello Sernesi e Giovanni Fattori, Adriano Cecioni e Cristiano Banti, ai quali si uniscono il napoletano Giuseppe Abbati, i veneti Vincenzo Cabianca e Federico Zandomeneghi, il ferrarese Giovanni Boldini, il romagnolo Silvestro Lega, il pesarese Vito D’Ancona, il romano Nino Costa. Fra i loro sostenitori ci sono il poeta Giosuè Carducci e, appunto, il critico Diego Martelli. Oggi il Caffè – due stanze, una delle quali da loro decorata – non esiste più, e all’altezza del civico 21 resta una targa a ricordare il «geniale ritrovo d’un gruppo di liberi artisti».
Un desiderio di libertà che va oltre l’arte: svincolarsi sì dalle «pedanterie» accademiche, ma il loro obiettivo è anche, spiega la curatrice, «quello di arrivare ad esprimere il proprio sentimento attuale di giovani uomini animati da profonde idealità patriottiche e artistiche attraverso forme d’arte più moderne e condivise», nel confronto da un lato con realtà artistiche diverse da quella italiana, e dall’altro con la contemporaneità. Siamo in pieno Risorgimento, molti di questi artisti hanno preso parte in prima persona ai moti e alle guerre che avrebbero portato all’Italia unita, e la loro passione politica diventa, anche, arte: in mostra si possono ammirare, fra gli altri, Cucitrici di camicie rosse e Il 26 aprile 1859 in Firenze (in cui l’autore celebra l’inizio della seconda guerra d’indipendenza con la raffigurazione di una donna che cuce una bandiera tricolore), entrambi di Odoardo Borrani; e Il campo italiano dopo la battaglia di Magenta di Giovanni Fattori.
Dalla tela al cinema
Con gli anni ‘70, fra la scomparsa di alcuni degli artisti e il trasferimento a Parigi di altri, l’attività di gruppo dei Macchiaioli viene meno: nuove leve e sensibilità artistiche differenti li sostituiranno, guardando al Novecento che si avvicina a grandi passi, al quale è dedicata l’ultima sezione della mostra. Eppure il loro modo di guardare alla realtà e la peculiare sensibilità nel ritrarla, non si esauriscono con la fine del movimento, che è tornato a vivere sul grande schermo grazie alle suggestioni esercitate su molti registi.
Ultimo in ordine di tempo Matteo Garrone («I luoghi di Pinocchio sono stati scelti perché facessero pensare ai quadri macchiaioli, riflettendo quelle luci e quei colori che fossero in grado di raccontare l’anima dei personaggi»); e prima di lui Martin Scorsese (in una scena de L’età dell’innocenza, Newland Archer alias Daniel Day-Lewis, in attesa dell’arrivo della contessa Olenska, interpretata da Michelle Pfeiffer, osserva con interesse un dipinto di Fattori). Ma soprattutto Luchino Visconti, che costruisce molte inquadrature di Senso ispirandosi, fra le varie opere dei Macchiaioli, a La visita di Silvestro Lega, al Telemaco Signorini di Non potendo aspettare – La Lettera (è la scena in cui la protagonista Livia raggiunge Franz, il suo amante, all’interno del suo appartamento), al Fattori de Il campo italiano dopo la battaglia di Magenta per la scena della battaglia di Custoza. Fino al 26 febbraio 2023.
Speciale per i soci Unicoop Firenze
Per i soci Unicoop Firenze ingresso in convenzione e visite guidate gratuite (al solo costo del biglietto di ingresso ridotto): i primi appuntamenti sono previsti le domeniche di ottobre e novembre (a partire dal 16 ottobre), sempre alle 11.
Info
palazzoblu.it e macchiaiolipisa.it
Per le visite guidate: kinzicacoop.it