Haters: una delle prime a lamentarsene è stata l’ex presidente della Camera, Laura Boldrini. Poi è stato il turno della scrittrice Michela Murgia, più di recente la senatrice a vita Liliana Segre, cui di conseguenza è stata assegnata la scorta, ma non va dimenticata neppure l’astronauta Samantha Cristoforetti.
Cos’hanno in comune, oltre al fatto di essere donne, famose e di successo nella loro professione? Tutte sono state vittime di hate speech (letteralmente frasi d’odio), cioè sono state travolte da una marea di offese e insulti sui social media, anche al ritmo di duecento al giorno per diversi mesi, come ha dichiarato la scrittrice sarda. E noi possiamo confermare, perché dopo la pubblicazione della sua intervista sul nostro Informatore di settembre, le offese sono arrivate anche alla nostra redazione.
Di che tipo di insulti si tratta?
Per lo più a sfondo sessista, o razziale, critiche all’aspetto estetico, minacce di violenze fisica e sessuale, fino ad augurare la morte. Chi le scrive si nasconde, ma non troppo, dietro profili Facebook o account Twitter, in una sorta di furia emulativa e adrenalinica nel mostrare il volto peggiore dell’essere umano. Un sistema che si autoalimenta grazie all’effetto gruppo e all’invisibilità che la rete offre: se non vedi la persona che stai offendendo, sei più disinibito, e se non sei visto, fai cose che di persona non faresti.
Il parere dell’esperto
«Buttare una frase dentro una macchina, come un computer o un telefonino, dà la sensazione di scaricarti dalla responsabilità di quello che dici – spiega Luca Toschi, professore ordinario di Sociologia dei Processi Culturali e Comunicativi e direttore del Centro per la Comunicazione Generativa dell’Università di Firenze -. Fa parte del processo di robotizzazione dell’essere umano che porta all’automatizzazione non solo delle azioni, ma anche dei pensieri».
In pratica, ma non è una scusante, molti nemmeno si accorgerebbero della gravità delle parole e della rabbia che esprimono. E se lo fanno gli altri posso farlo anche io. Ma si tratta sempre di odio e risentimento, che spesso nascono dall’invidia. Le categorie su cui sono riversati maggiormente sono le donne, gli omosessuali, i migranti, i diversamente abili e le persone di religione ebraica.
Negli Stati Uniti, dove, come spesso accade, il problema degli hater (gli odiatori) è balzato all’attenzione in anticipo rispetto all’Italia, si è aperto un dibattito sull’opportunità di intervenire normativamente su questi comportamenti vietandoli o sanzionandoli: dove sta il confine fra libertà di espressione e rispetto del diritto a non essere offesi?
In Italia non esiste una legge creata ad hoc per le offese digitali. Chi chiede giustizia fa riferimento a reati come diffamazione o calunnia. Nei processi, però, i giudici si sono comportati in maniera contrastante, qualcuno è arrivato a dire che, visto che i social media non sono autorevoli, godono cioè di una scarsa considerazione e credibilità, di conseguenza non sono idonei a ledere la reputazione altrui. Quindi una sorta di autorizzazione a proferire in libertà offese e insulti, tanto chi ci crede! Ovviamente le vittime non sono d’accordo. E quando ad essere colpiti dalla violenza digitale sono persone che non hanno neppure lo scudo della notorietà o sono molto giovani, come nei casi di cyberbullismo, le conseguenze possono essere fatali.
Se la legge non aiuta a ridurre il fenomeno, un ruolo potrebbero giocarlo educazione e cultura.
«Il fenomeno “hater” è emblematico della crisi della nostra società, in cui la conoscenza non ha più valore. Se conosci, non offendi, perché non hai paura che il tuo piccolo mondo sparisca. La rabbia e l’odio che questi individui esprimono derivano dalla mancanza di progetti e di speranza» conclude Toschi. Proprio l’opposto del motivo per cui il web è nato: favorire la collaborazione e la cooperazione fra mondi distanti, non solo fisicamente, e avvicinare le persone.