Fiori, alberi, cespugli, piante, muschi, erbe, arbusti, prati: esseri viventi la cui presenza è indispensabile per la vita dell’intero pianeta. Compresi gli esseri umani tutti, ma ancora di più chi è fragile: malati, anziani, disabili, persone svantaggiate o traumatizzate nel corpo e nell’anima. E proprio sui vantaggi della relazione uomo-pianta si basa l’orticoltura terapeutica, una pratica che utilizza orti e giardini come strumenti terapeutici in ambiti anche molto diversi, spaziando dall’età evolutiva alla terza età.
Di sana pianta
«In Gran Bretagna e Stati Uniti sono più di 50 anni che l’orticoltura terapeutica è riconosciuta, certificata e praticata in ambito sociosanitario», spiega Ania Balducci, docente al master di orticultura terapeutica dell’Università di Bologna. Laureata in scienze agrarie, Balducci si è specializzata a Londra e in America, dove l’ortoterapia è utilizzata nei settori di prevenzione, terapia e riabilitazione.
«Nata oltreoceano dopo la Seconda guerra mondiale per la riabilitazione fisica dei feriti – continua la docente -, negli anni Settanta si è gradualmente evoluta verso le pratiche occupazionali per diventare poi vero e proprio corso universitario, che dà accesso a una professione esercitata sulla base di protocolli e linee guida ben definite». L’obiettivo è massimizzare i benefici che derivano dal contatto con il verde, aiutando e mediando l’interazione con la natura per chi ha delle difficoltà oggettive o soggettive.
«Disabili fisici o cognitivi, anziani, così come persone ospedalizzate per varie patologie, possono essere affiancate da una figura che li guidi nella relazione con la natura, con modalità operative specifiche studiate appositamente per la loro condizione», afferma Balducci. Un percorso accompagnato di avvicinamento al verde dove le mani si sporcano di terra per seminare, annaffiare, proteggere ciò che si è piantato: un lavoro fatto con il corpo per arrivare alla mente di tutti, nessuno escluso.
«L’ortoterapia si può fare ovunque: all’aperto, in giardino o su un terrazzo, ma anche al chiuso con un carrello delle piantine, fra le corsie di un ospedale o in una residenza per anziani. L’importante, infatti, non è il prodotto in sé, ma prendersi cura della persona», continua a spiegare Balducci.
Maestre di vita
«Orti e giardini possono insegnare molto, dal grande valore della diversità all’ineluttabilità del ciclo della vita, fatto di un inizio ma anche di una fine». Fragili e non solo, la connessione con il verde è di fatto un toccasana per chiunque, anche se entrare davvero in relazione con le piante raramente è automatico.
Anzi: nel 1998, dopo anni di ricerche, l’Università statale della Louisiana ha coniato la definizione plant blindness (letteralmente, cecità alle piante) per descrivere proprio l’incapacità di vedere le piante nell’ambiente circostante.
Chiarisce, infatti, la docente: «Non basta passeggiare in un bosco per entrare in relazione con quell’ecosistema: bisogna sentire la vita delle piante, esserne coscienti per poter compensare il mondo artificiale nel quale siamo immersi».
La rapida crescita delle nostre città negli ultimi 100 anni non ci ha dato il tempo di abituarci all’assenza di natura, provocando una sorta di sindrome da deprivazione che possiamo curare coltivando connessioni profonde con il mondo vegetale. «In tal senso l’ortoterapia può svolgere un’importante funzione di prevenzione, soprattutto per i più giovani», conclude la docente.
Insegnare ai bambini, a partire dall’asilo nido, il valore e il ruolo delle piante, sostenerli nelle loro curiosità verso il mondo vegetale, rendendolo più accessibile, non è solo la chiave per realizzare un ambientalismo concreto, ma anche l’unica strada per rientrare con garbo nel circuito naturale. Un’occasione da non perdere.