Gli allevatori dicono «per favore, non chiamatela carne». Gli scienziati rispondono «per favore, non chiamatela carne sintetica o artificiale perché non è classificabile come elemento sintetico». Allora per il momento la chiamiamo carne coltivata o a base cellulare o in vitro. Così per capirsi, in un momento dove capire non è ancora semplicissimo.
Stiamo parlando di un prodotto generato dalle cellule staminali di un animale, coltivate in laboratorio. La questione è molto calda perché lo Stato italiano ha approvato la legge del 1° dicembre 2023, n. 172, con cui ha disposto il divieto di produzione e di immissione sul mercato di alimenti prodotti a partire da colture cellulari o di tessuti derivanti da animali vertebrati. La legge prende spunto dal così detto principio di precauzione, che si sfodera lì dove non c’è un orientamento unanime nella comunità scientifica. Ma, se la l’Unione europea dovesse decidere diversamente, le nostre leggi anti carne in vitro non varranno più.
Ecologica ma costosa
A fare da sfondo a una (provvisoria?) grande soddisfazione degli allevatori nostrani, c’è però un dibattito molto forte che si è aperto a livello globale e che investe molti settori, a partire dall’economia per finire all’ambiente. Sebbene i primi esperimenti risalgano a più di 70 anni fa, è ora il momento di capire la fattibilità di questo salto culturale epocale. Duccio Cavalieri, docente di Microbiologia all’Università di Firenze, racconta i pro e i contro, ma soprattutto le incognite della questione.
«Indubbiamente – dice Cavalieri – ci sarebbe un grosso risparmio di consumo di suolo, che ora serve per produrre proteine vegetali, come la soia, usate nell’alimentazione animale, e anche di acqua, di emissioni di CO2 e probabilmente di energia». In che senso probabilmente? Il risparmio di energia è infatti uno dei cavalli di battaglia di chi vuole produrre carne in vitro. «Nel senso – sostiene Cavalieri – che finché non avremo processi industriali definiti e una diffusione su larga scala sarà impossibile rispondere con certezza a molte domande».
Intanto è bene chiarire che non si tratta di un prodotto economico. «Altro che carne dei poveri – dice Cavalieri riferendosi al dibattito italiano -: il problema è proprio che al momento è un alimento troppo costoso per stare sul mercato». Alcuni sottolineano il fatto che è possibile, addizionando la carne in vitro con vari “ingredienti”, limitare i rischi connessi al consumo di carne. «Come aggiungendo il tocoferolo, ovvero vitamina E, che ha proprietà antiossidanti, o con altre molecole antinfiammatorie. O con composti vitaminici e proteici che ad esempio neppure il seitan, spesso consumato in alternativa alla carne, contiene». Ma tutti questi elementi saranno misurabili quando avremo una produzione in vitro su larga scala. L’industria al momento non sembra riuscire a contenere i costi di produzione.
Carne in vitro e fiorentina
Il primo pensiero però riguarda la salute. Sappiamo che la carne in vitro non è tossica, ma a distanza di venti o trent’anni che conseguenze potrà avere sulla salute? Non si sa. Da qui il principio di precauzione, applicato a un progetto che avrebbe dovuto servire agli astronauti per raggiungere Marte in quarant’anni di un ipotetico viaggio cosmico e che ora rischiamo di ritrovarci sulle nostre tavole, se le lobby di questo prodotto (alcuni Paesi stanno facendo grossi investimenti in questo settore, che potrebbe diventare un business enorme) riusciranno ad averla vinta a Bruxelles.
Nel frattempo, i costi ambientali degli allevamenti super intensivi di Usa, America Latina e soprattutto Cina, stanno crescendo: come faremo – in maniera sostenibile – a produrre proteine per 8 (nel 2050, 9) miliardi di persone? «Al momento la carne in vitro non sembra la migliore delle alternative – aggiunge Cavalieri -. Mentre evitare gli allevamenti intensivi e orientarsi verso una dieta pesco-vegetariana potrebbe iniziare a risolvere tanti problemi». Le divisioni fra gli allevatori e i vegetariani e vegani pongono una questione etica, con risvolti culturali e gastronomici. La carne in vitro ha la forma di “blocchetti”, programmabili per aromi, consistenza e composizione. Ma come potrà un prodotto del genere essere apprezzato sulle tavole di un Paese che sta completando – probabilmente con successo – l’iter per far entrare la bistecca alla fiorentina nell’elenco dei patrimoni immateriali dell’Unesco?