Cinque porzioni di frutta e verdura aiutano a vivere in salute. Quante volte l’abbiamo sentito dire? Eppure da cinquant’anni a questa parte le vendite di questi alimenti tanto preziosi per il benessere sono in progressivo calo.
Secondo l’Ismea (Istituto per i Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare) nel 2022 ogni italiano ha comprato 126 chili di ortofrutta per una spesa di 313 euro: circa 345 grammi a testa al giorno che equivalgono a una parte edibile di meno di 270 grammi – chi non elimina il torsolo della mela o taglia il gambo amaro dei carciofi! -, ben lontani dai 400-500 grammi considerati la porzione ideale giornaliera. Il dato, già inquietante di per sé, lo diventa ancora di più se confrontato al passato. Nel 2000 gli italiani mangiavano (per la precisione acquistavano) un etto in più di frutta e verdura fresca al giorno, cioè 361 grammi a testa, mentre se si va ancora più indietro, negli anni Settanta il consumo pro capite era di 202 chilogrammi l’anno, oltre 550 grammi al giorno.
Cosa è successo nel frattempo? «Il calo delle vendite di ortofrutta è purtroppo una tendenza che investe praticamente il mondo intero, Italia compresa – spiega Sandro Massei, manager ortofrutta di Unicoop Firenze -, dove pure il consumo pro capite di ortofrutta resta più alto che altrove. Anche il mercato toscano fa registrare questo trend negativo, benché con numeri migliori di quelli nazionali, e per quanto riguarda Unicoop Firenze comunque meglio del mercato toscano. Il 2022 rispetto al 2018 ha fatto registrare cali di vendita per circa 10 milioni di chili. Fra le poche categorie che crescono, ci sono le verdure di pronto consumo e la frutta tagliata».
Colpa dei prezzi e del clima
Assodato il calo generalizzato di acquisti di frutta e verdura fresca, proviamo a cercare il perché. C’è chi lo trova nell’economia e nell’aumento dei prezzi dell’ortofrutta registrato in particolare negli ultimi due anni, con l’inflazione a doppia cifra: nel 2022 la spesa degli italiani per questo tipo di prodotti è arrivata a 18,4 miliardi di euro, + 4,1% rispetto al 2021, mentre la quantità consumata ha il segno meno (- 2,7%).
A incidere sull’aumento dei prezzi di frutta e verdura anche i cambiamenti climatici, caratterizzati da forte siccità e fenomeni estremi di precipitazioni. Anche il 2023 va in questa direzione: dopo un inverno estremamente mite, che aveva favorito una fioritura precoce degli alberi da frutto, nel centro e nord Italia sono state le gelate di fine marzo e aprile a condizionare in negativo l’esito dei raccolti. Inoltre, l’eccezionale pioggia caduta a maggio, che ha devastato con l’alluvione le coltivazioni romagnole, ha provocato carenze di disponibilità di frutta e verdura e un ulteriore innalzamento dei prezzi. «L’impatto è devastante sulla quantità e qualità di pesche, ciliegie e albicocche – spiega Claudio Mazzini, responsabile Freschissimi di Coop Italia – con danni anche alle piante, quindi di lungo periodo. I prezzi salgono e i consumi diminuiscono».
Non tutti però concordano nel dare la colpa di un minor consumo di ortofrutta all’aumento dei prezzi. Secondo Marino Niola, antropologo, docente all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, «come sempre le motivazioni economiche spiegano solo parzialmente i fenomeni che caratterizzano i comportamenti umani all’interno di una società. Il cambiamento delle abitudini nel consumo di frutta e verdura fresca, infatti, riguarda anche chi non ha problemi di denaro e che, invece di mangiare insalata e arance, preferisce acquistare cibi pronti».
Piatti pronti e surgelati
L’aumento delle vendite dei prodotti lavorati incide sul calcolo dei volumi di vendita di frutta e verdura fresca: ad esempio il minestrone già pronto, che registra una tendenza in crescita, “pesa” meno degli ingredienti freschi (620 grammi di minestrone pronto corrispondono a circa 1 chilogrammo di verdure non lavorate).
E poi c’è chi opta per i surgelati: «Negli ultimi anni c’è stata una costante crescita del comparto “surgelati”, verdure in primis; innegabile che il periodo pandemico abbia dato un forte impulso perché sono prodotti più veloci da mettere nel carrello e con il vantaggio di generare meno spreco, data la conservabilità, l’assenza di scarti e i minori consumi di acqua ed energia nella loro trasformazione» afferma Alessandra Gori, manager generi vari e surgelati di Unicoop Firenze che aggiunge: «Le verdure surgelate hanno toccato il record storico di vendite a volume nel 2020, nel 2022 abbiamo assistito ad una piccola regressione ma i volumi di vendita sono ancora nettamente superiori al 2019, a conferma che, anche a pandemia terminata, parte delle abitudini è diventata strutturale. È senza dubbio il mondo delle patate a trainare l’aumento delle vendite, assieme a minestroni e zuppe pronte. Molto bene anche legumi e verdure in foglia». Sono quindi comodità d’uso e riduzione degli sprechi a guidare le scelte dei consumatori.
«La nuova consapevolezza di riduzione degli sprechi sta fortemente impattando anche a livello inconscio sui comportamenti di acquisto, soprattutto in un reparto ad alta deperibilità come l’ortofrutta – conferma Massei -. Non dimentichiamo però che non ci sono investimenti in pubblicità che stimolino il corretto consumo: da una recente indagine risulta che circa la metà del campione intervistato pensa che il quantitativo giornaliero di ortofrutta da assumere sia di circa 150 grammi, mentre le 5 porzioni dovrebbero corrispondere a circa 400-500 grammi».
L’olio dei greci
Scarse e inefficaci, le politiche di educazione alla salute finora attuate, secondo Marino Niola, hanno fallito soprattutto perché hanno ridotto l’alimentazione a nutrizione. «L’uomo, a differenza degli altri animali, non mangia solo per restare in vita: cibo vuol dire gusto, piacere, convivialità, cultura. Finché le campagne avranno solo una dimensione medica e salutistica, trasformando il cibo in un parafarmaco, continueranno a fallire. Perché nessuno si è domandato quali vuoti colma il cibo, cosa chiedono le persone a un pasto, cosa rappresenta il sedersi a tavola con i familiari o con gli amici. E soprattutto cosa la tradizione ha tramandato attraverso i secoli».
Esemplare è quanto avvenuto in Grecia: «Qualche anno fa è stata fatta una campagna per ridurre la quantità di olio d’oliva nel condimento dell’insalata e delle verdure; lo sa qual è stato il risultato? Che la gente ha smesso di mangiare insalata e verdure, ma non ha ridotto la quantità di olio consumato». Così come molti di noi hanno smesso di mangiare frutta a fine pasto, momento rituale dei nonni prima di alzarsi da tavola, perché secondo alcuni “gonfia”, ma non l’hanno più mangiata neppure in altri momenti della giornata, privandosi di una fonte importante di vitamine e fibre.
Quali le possibili soluzioni? «Per cambiare le abitudini servono anni, non si può pensare di scardinare usi consolidati in poco tempo e solo con precetti. Ma prima di tutto è importante capire che i cibi sani saranno consumati di più solo se saranno anche buoni – conclude l’antropologo -, perché non si può prescindere dal gusto e dal piacere che il cibo dà».
Se non son cinque
Roberto Della Casa, professore di Marketing e gestione dei prodotti alimentari dell’Università di Bologna, ha calcolato le conseguenze sulla salute del ridotto consumo di frutta e verdura: «Ogni 200 grammi di frutta e verdura in più al giorno, il rischio di morte per malattie cardiovascolari diminuisce del 9%. Pertanto, teoricamente, la crisi dei consumi agricoli dal 2000 al 2014 sarebbe stata responsabile di circa 52mila morti, per un impatto sulla spesa sanitaria totale di 3,4 miliardi – spiega -. Se oggi fossimo arrivati a consumare 503 grammi a testa, avremmo evitato 100mila decessi e una spesa sanitaria di 8,9 miliardi di euro».