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Al voto, al voto!

Come nel resto d’Europa l’astensionismo si fa sentire anche in Toscana. Quali sono le cause? Ne abbiamo discusso con esperti politologi e storici

La questione è da diversi decenni sotto gli occhi del mondo occidentale. La rappresentanza democratica è entrata in una fase di forte involuzione, di cui l’astensionismo è la forma più clamorosa ed evidente. Alle elezioni europee del 2024 l’affluenza media nei Paesi membri dell’Unione è stata di circa 51,7%. Con differenze interne, certo, che vedono come fanalino di coda i Paesi dell’Est e del Sud. L’Italia ha registrato la più bassa affluenza mai vista nella storia repubblicana: solo il 49,69% degli aventi diritto si è recato alle urne (e considerando gli elettori all’estero si scende al 48,2%). Le regioni con maggior astensione sono quelle del Sud e delle Isole.

In Toscana alle Regionali ha partecipato al voto il 47,7% degli aventi diritto, in netto calo rispetto al dato precedente che aveva raggiunto il 62,6%.

Le cause

Come siamo arrivati a questo punto? Il politologo Alessandro Chiaramonte, docente di Scienze politiche all’Università di Firenze, spiega il fenomeno in questo modo: «La partecipazione alle elezioni è in progressivo calo in Italia da quasi cinquant’anni. Molte sono le cause: il declino delle ideologie, l’indebolimento dei legami sociali e l’individualizzazione delle scelte, la disaffezione nei confronti della politica, ma soprattutto la crisi di rappresentanza dei partiti politici».

È d’accordo Alessandro Volpi, docente di Storia contemporanea all’Università di Pisa, che sostiene: «L’astensionismo tende a crescere per una sostanziale “periferizzazione” della politica, sostituita in maniera paradossale da altre forme di partecipazione, a cominciare dai social media. Esprimersi in rete sta diventando un modo di rappresentazione ben più sentito e forte della partecipazione al voto. Poi ci sono due ulteriori elementi: l’irrilevanza della politica rispetto alla capacità di modificare le condizioni di vita della popolazione e il sempre più evidente sradicamento territoriale delle forze politiche».

Secondo Antonio Floridia, già responsabile dell’Osservatorio elettorale della Regione Toscana, «le cause della disaffezione all’appuntamento elettorale sono molteplici. Alcune strutturali, come l’invecchiamento della popolazione. Altre sono più politiche e vanno dall’apatia all’indifferenza, all’estraneità. Altre ancora riguardano il fatto che non ci sono più partiti in grado di mobilitare e raggiungere tutte le fasce dell’elettorato. Un politologo – racconta Floridia – alla domanda: “Perché la gente non va a votare?”, ha risposto: “Alcuni perché non possono, altri perché non vogliono, ma altri semplicemente perché non c’è più nessuno che glielo chiede!”».

Perché essere eletti con sempre meno voti è più semplice e costa meno? Perché questa dinamica è propria di democrazie senza partiti? Perché – come dice Peter Meir, autore di Governare il vuoto – i partiti non sono più organizzazioni di massa capaci di mobilitare e rappresentare interessi collettivi, ma diventano “cartelli” elitari, sempre più simili tra loro, concentrati sulla gestione del potere piuttosto che sulla partecipazione.

Le conseguenze

L’unica cosa di cui siamo certi è che le conseguenze sono disastrose. «Innanzi tutto la minore legittimazione dei partiti e della classe politica e, quindi, delle stesse istituzioni democratiche – precisa Chiaramonte -. Vi è poi una distorsione della rappresentanza: le decisioni politiche vengono prese molto più a misura di chi partecipa rispetto a chi non partecipa».

Anche Volpi a questo proposito sostiene che «la conseguenza più evidente è costituita dal governo delle minoranze. Quando un sindaco è eletto da tre cittadini su dieci risulta, inevitabilmente, l’espressione di una minoranza e ha dunque una legittimazione fragile. In un quadro di questo tipo le elezioni rischiano di essere l’espressione soprattutto di minoranze organizzate, di lobbies e corporazioni in grado di affermare le proprie istanze rispetto all’interesse generale».

Tutto sempre meno democratico, dunque. Antonio Floridia conferma che «una bassa percentuale di votanti produce delegittimazione: molti candidati sono eletti oramai solo da una minoranza effettiva degli elettori». E una democrazia della minoranza, a ben pensarci, è un ossimoro, cioè una contraddizione.

Soluzioni?

Molti Paesi stanno provando a richiamare al voto i cittadini in vari modi. Dall’India alla Svizzera al Brasile si cerca di ampliare il bacino dei votanti con l’aiuto del digitale. L’Estonia con la piattaforma i-Voting ha visto la partecipazione elettronica facilitata superare quella tradizionale. Il Belgio ha invece adottato il voto obbligatorio, con tanto di sanzioni formali (per la verità, poco applicate). E ha il tasso di astensionismo più basso d’Europa. Ma si tratta di un caso limite.

In realtà quasi ovunque – dall’introduzione del voto elettronico o per corrispondenza, a campagne di educazione civica, alla riduzione dell’età del voto – difficilmente si riesce ad arrestare la tendenza. Perché la risposta è evidentemente tutta politica, più che tecnica.

Antonio Floridia è convinto ad esempio che «si possono introdurre dei metodi che facilitino il voto, ma poi è la politica che deve trovare i rimedi: tornare a far interessare i cittadini».

Per Chiaramonte «invertire il calo di partecipazione è ancora possibile. Molti elettori non sono infatti astensionisti “cronici”, ma sono disposti a tornare al voto in presenza di partiti che si mobilitano su specifiche questioni per loro importanti o di leader che si mostrano particolarmente credibili: dunque i partiti, vecchi e nuovi, possono ancora giocare un ruolo decisivo. Per farlo, tuttavia, devono essere in grado di mettere in campo programmi, candidati e leader che incontrino il favore degli elettori».

Come a dire, se i partiti smettono di rappresentare i cittadini è difficile vedere questi ultimi recarsi in massa alle urne. E senza questi ultimi è difficile parlare di sistemi democratici rappresentativi.

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