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La scuola degli affetti. Educare alle emozioni

Ne abbiamo discusso con Enrico Galiano, insegnante di scuola media e scrittore

L’educazione alle relazioni rende ogni persona consapevole di sé, dei propri desideri e di come costruire legami sani con gli altri, che siano amici, familiari o partner. «Educare alle relazioni significa imparare a guardare il mondo con gli occhi dell’altro, con rispetto», commenta Enrico Galiano, scrittore, insegnante e comunicatore sociale, noto per il suo impegno nella diffusione di una didattica alternativa, da metà maggio in libreria con il romanzo Quel posto che chiami casa. Ci vuole coraggio per diventare chi sei (ed. Garzanti). 

Copertina Libro "Quel posto che chiami casa"
Copertina Libro “Quel posto che chiami casa”

Con Laura Sabbadini, ex dirigente del Dipartimento per le Statistiche Sociali dell’Istat e oggi editorialista, e Elisabetta Camussi, docente di Psicologia Sociale presso l’Università Milano Bicocca e Presidente della Fondazione Ossicini, Galiano ha fatto parte del comitato scientifico guida dell’indagine “La Scuola degli affetti”, condotta a febbraio 2025 da Coop in collaborazione con Nomisma su 2000 italiani tra i 18 e i 64 anni.

Da questa ricerca è emerso che il 70% degli intervistati vorrebbe che l’educazione affettiva diventasse materia scolastica, riconoscendone così il valore anche in chiave preventiva contro fenomeni di odio ed emarginazione. Ben 9 italiani su 10 ritengono che proprio l’insegnamento scolastico possa contribuire alla prevenzione di fenomeni di odio, emarginazione, finanche violenza di genere. A partire anche dalla tenera età, dato che un genitore su due immagina che il percorso dell’educazione alle relazioni possa iniziare già dalla scuola elementare. Il 68% degli intervistati immagina programmi che coinvolgano esperti esterni, quali psicologi o pedagogisti, il 62% immaginano spazi di ascolto psicologico specializzato, il 51% programmi di formazione specialistica agli insegnanti.

Prof. Galiano quale ritiene siano le sfide più grandi per consentire ai ragazzi di costruire relazioni affettive sane?

I ragazzi sono un riflesso di ciò che imparano nell’ambiente in cui si trovano, per cui la prima sfida è il bisogno di un’educazione emotiva, che abbia però come primi destinatari gli adulti di riferimento, famiglie e insegnanti, perché siamo noi per primi a dover imparare a gestire le nostre emozioni, per poi arrivare ai ragazzi. La seconda cosa è una forte limitazione dell’utilizzo dei dispositivi digitali, almeno fino ai 14 anni, perché può creare  nei bambini e nei ragazzi danni alla loro salute mentale, come stati di ansia, depressione, paura del confronto sociale come ci spiega anche Jonathan Haidt nel suo libro Generazione ansiosa. Viviamo in un mondo sempre più competitivo e perfezionista e questo si traduce anche nella difficoltà dei più giovani ad accettare le proprie imperfezioni, i fallimenti, a saperci convivere. 

Dalla ricerca Coop emerge che il 70% delle  famiglie intervistate chiedono di fare educazione sentimentale nella scuola. Perché ancora non si è fatto?

Il problema è quell’un terzo. Ad oggi l’educazione all’affettività è rimessa all’autonomia scolastica delle scuole. Così si fanno partire percorsi con gli psicologi, dove occorre l’adesione delle famiglie, e quell’un terzo che nega ai propri figli di partecipare, è proprio quella parte che ne avrebbe più necessità. Noi insegnanti lo chiediamo da anni. Vorremmo ospitare uno spazio dove persone competenti, non insegnanti, possano insegnare cosa è il consenso, la differenza tra gelosia e possesso, elementi base della convivenza civile. 

Il mondo degli adolescenti è così lontano da quello degli adulti? Se sì, come possiamo colmare la distanza? 

Preferisco dire che i giovani sono il nostro presente, perché dire ai giovani che sono il futuro è come dire loro state buoni, che ancora non è il vostro turno. Per avvicinarci ai giovani dobbiamo fare due cose semplici, anche se difficili: ascoltarli e sentire cosa hanno da dire senza giudicarli o etichettarli. Fidarci di loro. E, soprattutto, imparare ad essere più coerenti.
Tempo fa ho dato alla mia terza media un tema “Scrivi una lettera agli adulti o ad un adulto in particolare”.  In tutti questi temi è emersa l’incoerenza di noi adulti. Diciamo ai nostri ragazzi di non stare al cellulare, ma abbiamo il telefonino sempre in mano, di scegliere cosa piace loro fare, ma poi siamo sempre arrabbiati e insoddisfatti, di essere se stessi, ma poi portiamo maschere per essere ascoltati, chiediamo ascolto e siamo i primi a non farlo. 

Quali consigli darebbe a un ragazzo o a una ragazza per affrontare le proprie insicurezze e comunicare in modo autentico le proprie emozioni?

Difficile dare consigli generali, ogni ragazzo o ragazza è unico ed ha le proprie peculiarità. Una cosa che mi viene da dire a tutti è di esprimere il proprio disagio, non trattenerlo. Le modalità per farlo sono infinite: parlarne con qualcuno, esprimere le proprie emozioni in modo creativo, protestare. Dall’altra parte però c’è bisogno che ci sia qualcuno disposto ad ascoltare, senza giudicare. La letteratura è uno strumento potente per noi esseri umani, anche adulti, per conoscere le nostre emozioni, dare loro un nome, e non subirle, così come lo è il teatro perché dà corpo alle emozioni. Ma c’è bisogno anche di figure competenti che siano lì come riferimento, come potrebbe essere ad esempio, lo psicologo a scuola. Con una figura esterna, competente, i ragazzi si sentirebbero anche più liberi di esprimersi. 

Come può la scuola aiutare i giovani a far emergere i loro talenti?

La scuola lentamente si sta spostando verso una direzione che non è solo quella della trasmissione di contenuti e di nozioni, perché oggi gli studenti possono raggiungere quei contenuti anche da soli, ma piuttosto quella di dare un metodo per la ricerca e la selezione di quei contenuti, per aiutare i ragazzi a scoprire se stessi. Preferisco non parlare di talenti, perché la parola talento è pericolosa, si riferisce a quello che uno sa fare per natura. Nella mia esperienza ho visto ragazzi talentuosi, ma infelici, perché quella era solo la cosa in cui erano bravi, quello in cui riuscivano facile, ma non quello che piaceva loro. Ecco il compito della scuola è piuttosto quello di aiutare i ragazzi a trovare la destinazione dei loro talenti. La domanda diventa allora: “cosa vuoi fare di ciò che hai a disposizione come talento”? 

La scuola è finita da poche settimane, quali consigli ha dato ai suoi studenti l’ultimo giorno di scuola?

Non do grandi consigli, scrivo alla lavagna due parole “Se” e “Nonostante”. E chiedo ai miei studenti di cercare di essere “persone nonostante” e “non persone se”, non farsi condizionare da ciò che non sono riusciti ad essere od ottenere, ma fare “nonostante”. Una congiunzione che cambia la prospettiva con cui si guarda il mondo. 

E l’ultimo giorno di terza media come saluta i suoi studenti?

Alla fine della terza media faccio loro un regalo, “la lezione dei superpoteri”. Arrivano in classe, e trovano ciascuno sul banco una lettera con la lista dei propri superpoteri, le cose in cui sono speciali, che poi elenco pubblicamente. Perché magari le lezioni di grammatica non se le ricorderanno, ma questa lezione  non la dimenticheranno. È successo anche a me, in terza media, l’insegnante di lettere mi lesse in classe la lista delle cose in cui ero speciale, mi sentii predestinato a qualcosa di grande. Ed ora, da insegnante cerco di restituire il favore. Devo ringraziare anche la mia maestra della scuola dell’infanzia che disse a mia mamma: “Enrico ha molta fantasia”, quattro parole ma mi hanno cambiato la vita.

Un consiglio ad un giovane che vuole abbandonare la scuola perché non ci si riconosce più?

È importante ascoltare le ragioni di questa sofferenza, se viene da un rapporto sbagliato con un insegnante o più insegnanti, una sfiducia nella scuola, un atto di bullismo. Dobbiamo far sentire loro che non sono soli in questo momento di crisi. Io racconto la mia storia. Per me la scuola è stata ciò che mi ha permesso di emanciparmi, studiare mi ha regalato una prospettiva diversa, mi ha reso libero.

Tre libri che consiglia ad un ragazzo da portare con sé in vacanza per imparare a conoscersi?

Per i ragazzi più grandi, che stanno cercando il loro posto nel mondo, Il codice dell’anima di James Hillman, che aiuta a capire a cosa siamo destinati. Per chi è alle medie e vuole riscoprire il piacere della lettura, uno dei libri di Davide Morosinotto, divertenti, pieni di azione, colpi di scena, ad esempio Il rinomato catalogo Walker & Dawn. Per chi cerca avventura e svago, Percy Jackson di Rick Riordan, un tuffo nel fantasy scritto in modo accattivante.

Adesso è nelle librerie con il suo libro Quel posto che chiami casa, di cosa parla?

È un libro che fa una domanda: vuoi essere vero o vuoi essere perfetto? La storia è quella di una ragazza che perde il fratello in tenera età e il fratello torna sotto forma di una voce che lei continua a sentire, anche se non si capisce se è una voce reale o è tutto nella sua testa. C’è un piccolo giallo da svelare, ma il concetto è che questa voce vuole spingerla a diventare davvero quella che è, a non seguire le aspettative degli altri. Mi piacerebbe che questo mio romanzo aiutasse le persone a decidere di chiudere con tutte le loro parti non autentiche, quelle maschere che si sono portate addosso per anni, ed essere vere e libere.

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