La sera del 27 febbraio 1921, a Firenze, fu ucciso a freddo sulla sua poltrona di direttore del giornale “L’azione comunista” Spartaco Lavagnini, segretario del sindacato dei ferrovieri. Gli assassini erano tre fascisti, fra questi Italo Capanni. In un clima da guerra civile, che dall’epicentro fiorentino si allargò ai Comuni confinanti, a Scandicci, temendo un assalto delle squadre fasciste, furono fortificate le vie d’accesso al centro cittadino con quattro barricate. La più grande, in prossimità del ponte sulla Greve, era detta trincerone: la presidiavano a turno, a centinaia, i cittadini: artigiani, qualche operaio, ma soprattutto braccianti. «Ai tempi – spiega Gilberto Bacci, autore del libro Le Barricate che ricostruisce con documenti e foto i fatti di Scandicci – il Comune, denominato di Casellina e Torri, era quasi esclusivamente agricolo, con i terreni in mano alle famiglie dei grandi proprietari agrari, come i Poccianti, i Torrigiani, i Franceschi». Si temeva che i fascisti volessero bruciare, come avevano fatto altrove, la Casa del Popolo e il Comune, che alle ultime elezioni era passato in mano ai socialisti (poi comunisti), con il sindaco Silvio Cicianesi.
Per tutta la giornata del 1° marzo sul trincerone si aspettò l’arrivo delle squadre fasciste, ma i seguaci di Mussolini non si fecero vedere. Giunse in serata, invece, un camion con una ventina di Carabinieri, ma ormai il dado era tratto, e neppure loro furono fatti passare, perché si pensava che fossero seguiti dalle squadre fasciste. I militari se la dettero a gambe al rumore degli spari dei fucili da caccia, mentre il camion che li trasportava finì incendiato nella Greve. Un’altra nottata al freddo aspettava i ribelli di Scandicci, ma anche una spedizione dell’esercito regio che la mattina dopo mise in campo un battaglione di fanteria, mitragliatrici, addirittura un cannone. Dietro di loro reparti dei Carabinieri e a seguire le squadre fasciste.
Non c’era storia, troppo grande lo squilibrio delle forze in campo, il 2 marzo il trincerone fu sfondato a cannonate. La colonna militare raggiunse il Comune e la Casa del Popolo, il portone fu divelto da colpi di cannone e di mitraglia. I fascisti conclusero il lavoro di devastazione. La bandiera rossa che sventolava sul municipio fu la prima a sparire. Il sindaco Cicianesi riuscì a fuggire, mentre gli altri che avevano animato le barricate furono catturati. Vittorio Michelassi, legato dai fascisti a un albero, fu umiliato e picchiato per l’intera giornata. Non ci furono morti, ma oltre 150 persone fermate e 76 finirono in carcere. Il Comune a guida comunista fu sciolto.
L’antifascismo di Scandicci era stato sedato, ma non ucciso. Risorgerà con la resistenza nell’agosto del ‘44. Dopo vent’anni molti di coloro che avevano animato le barricate saranno sui colli a combattere i nazi-fascisti con la brigata Bartolozzi. Lo stesso Michelassi nel Ventennio fu arrestato ben trentasei volte, ma questo non fiaccò il suo ideale. «Il colpo più duro arrivò con il rapimento della figlia Fedora che pochi giorni prima della Liberazione di Scandicci, il 4 agosto, fu imprigionata dai fascisti a Villa Triste, seviziata e violentata» racconta Bacci.
A chi si domanda perché non fu fatto passare il camion che trasportava i Carabinieri, l’autore del libro risponde: «Si viveva in un clima di guerra civile, in Emilia Romagna già da mesi gli assalti delle squadre fasciste alle case del Popolo, alle sedi dei sindacati, ai Comuni guidati da socialisti e comunisti erano frequenti. A Firenze il giorno prima c’era stata la battaglia di San Frediano, e le forze dell’ordine tolleravano e spalleggiavano l’operato delle camicie nere».
Sono trascorsi cento anni, ma la memoria di quei fatti è stata tramandata di padre in figlio dagli Scandiccesi doc: «Oltre a socialisti e comunisti dettero il loro contributo anche le forze dei popolari. Il parroco, ad esempio, portò cibo e vino a chi stava la notte di vedetta sulle trincee, e così fecero le donne, perché quella di Scandicci fu una rivolta di tutto il popolo democratico. Ricordare le Barricate oggi – conclude Bacci – ha un valore più che simbolico, perché la memoria è il miglior antidoto a ogni forma di revisionismo e indifferenza».
Nel frattempo
Il 1921 si era aperto con la scissione di Livorno che aveva dato vita al Partito Comunista d’Italia, mentre il Paese già da qualche anno era agitato dal vento degli scioperi che dalle fabbriche del nord Italia aveva raggiunto i lavoratori delle poche industrie toscane, come le Officine Galileo e la Fonderia del Pignone a Firenze. Il cosiddetto biennio rosso aveva portato al potere anche in alcuni Comuni della Toscana i sindaci del popolo. È in questo contesto di lotta del popolo contro industriali, latifondisti, borghesi, che nascono i primi nuclei combattenti fascisti.