Vermicelli, strozzapreti, minchiareddhi sono solo alcune tra le varietà di pasta che abbondano sulle nostre tavole. Certo, i condimenti che possono accompagnare questi manicaretti con i loro colori più vivi, dal rosso accesso del sugo alla vesuviana al verde intenso del pesto alla ligure, distolgono la nostra attenzione dal nome dei singoli piatti: è possibile cenare con dei piccoli vermi?
È possibile deliziarsi con una pasta che strozza i preti o con dei piccoli maccaruni, comunemente detti anche minchiareddhi? Ebbene sì, è tutto possibile, soprattutto se osserviamo il lessico della cucina, che da Nord a Sud restituisce un’ampia gamma di possibilità linguistiche. Com’è noto, i nomi delle pietanze, oltre a essere portatori di storia e di tradizioni locali, sono spesso bizzarri e talvolta osceni e la forte carica evocativa del nome del piatto, se da un lato ci fa venire l’acquolina in bocca, dall’altro valica i confini della gergalità.
Sappiamo infatti che, prendendo gli strozzapreti come esempio, la parola racchiude dentro sé una storia antica: la tradizione vuole che in origine le massaie romagnole, le adzore, rimaste ormai senza uova perché i preti delle diocesi le ritiravano per poi rivenderle, avevano sola acqua e farina per l’impasto; così, mentre le adzore impastavano, si racconta che per punizione augurassero al malcapitato prete di strozzarsi con quella stessa pasta.
Ma il nome del piatto corrisponde davvero allo sviluppo etimologico del termine, oppure sono la forma singolare e l’impasto della pietanza a determinare la stravaganza linguistica? Una sola risposta non c’è, ma questa pluralità di forme reali e figurate sono tanto gustose quanto triviali, e per questo interessanti da approfondire e certamente da gustare.
Ora proviamo a immergerci nelle corsie di un supermercato con una lista della spesa un po’ sopra le righe.
Inizieremo mettendo nel nostro carrello affettati, come le famosissime palle del nonno di Norcia, i coglioni di mulo abruzzesi e il succulento culatello di Zibello, o la culatta, una sua variante, e i latticini, come il bastardo del Grappa, il puzzone di Moena e l’immancabile zizzona di Battipaglia che accompagneremo con fette di pane cafone napoletano. Passeremo poi nella corsia dei farinacei, la più estrosa e stravagante: oltre ai già menzionati vermicelli, strozzapreti e minchiareddhi, non potranno mancare nella nostra dispensa i bigoli, pasta lunga e ruvida dell’area veneta, i cazzetti d’angelo e le fichette tricolori, ormai venduti come souvenir goliardici nelle botteghe di piccoli e grandi centri storici, i pisarei (pisarell) piacentini accompagnati cui faśö. Sceglieremo poi di gustare i nostri manicaretti con l’immancabile sugo alla puttanesca e acquisteremo gli ingredienti necessari per la deliziosa zuppa natalizia tradizionale dell’alessandrino, la cacca del bambino.
Via, servono un po’ di proteine! Dirigiamoci alla volta del reparto delle carni: sceglieremo il pezzo di vitello migliore per cucinare il vitello incavolato, il petto del pollo più grande per il pollastro affinocchiato, tipico toscano, e chiederemo al macellaio un pollo intero per il pollo cusutu ‘nculu leccese e uno sciagurato cotechino che ‘imprigioneremo’ seguendo la ricetta romagnola del cotechino in galera. Accompagneremo queste pietanze con gli immancabili grattaculi, erbette ‘fastidiose’ ricavate dalle zucchine, che abbiamo trovato nel banco frutta e verdura, dove prenderemo anche le poppe di Venere, varietà di pesca profumatissima, e l’occorrente per il cazzimperio, il pinzimonio dei romani.
Arriveremo al banco dei dolci, ma la scelta sarà quasi scontata: acquisteremo naturalmente le ficattole toscane di pasta fritta, le minni di virgini agrigentine e le siste delle monache d’Abruzzo, che troviamo sempre in mini- porzione da tre come vuole la tradizione, perché si racconta che le suore abruzzesi, per rendere meno evidenti i loro seni, erano solite inserire al centro del petto una piccola sporgenza.
Giunti alla fine della nostra spesa, sceglieremo tra i vini il Bricco dell’uccellone e la Monella, come varietà di barbera, lo Scopaio toscano e la Passerina abruzzese; e se tra di noi c’è qualcuno che al vino preferisse la birra non potrà non scegliere tra le varianti di malto dell’ormai nota birra Minchia messinese.
Ora fermiamoci qui, il carrello è pieno ed è arrivato il momento di andare alle casse. Per il momento, la nostra spesa è finita, ma la lista è ancora molto lunga: vi abbiamo solo presentato alcune tra le tra le più accattivanti male parole in cucina!
( a cura di Elena Felicani)
Riferimenti bibliografici
- C. Robustelli, G. Frosini (a cura di), Storia della lingua e storia della cucina. Parola e cibo: due linguaggi per la storia della società italiana, Atti del VI Convegno ASLI – Associazione per la Storia della Lingua Italiana (Modena, 20-22 settembre 2007), Firenze, Franco Cesati editore, 2007.
- M. Alba, C. Canneti, E. Felicani, C. Murru, Male parole: il gusto di dire le parolacce, in Parola. Una nozione unica per una ricerca multidisciplinare, a cura di B. Aldinucci, V. Carbonara, G. Caruso, M. La Grassa, C. Nadal, E. Salvatore, Siena, Edizioni Università per Stranieri di Siena, 2019, pp. 225-240.
- P. Trifone, Male parole, Milano, RCS MediaGroup, 2020.