Scordatevi pomodori e patate perché arrivarono dalle nostre parti dopo la scoperta dell’America. Ma anche cacao e tè, il primo per lo stesso motivo e il tè perché l’abitudine di degustarlo alle 17 si diffuse solo dopo la conquista dell’India da parte degli inglesi. A parte inevitabili differenze dovute alla disponibilità delle materie prime e di conseguenza alle preferenze di gusto, gli antichi Romani avevano un atteggiamento verso il cibo non così dissimile dal nostro.
A riportare l’attenzione sulle abitudini alimentari dei nostri avi, è stato nei mesi scorsi il ritrovamento nel parco archeologico di Pompei di un termopolio, in parole povere una rosticceria ante litteram, perfettamente conservata, con affreschi dai colori vivissimi e persino resti di cibo all’interno delle grandi anfore dove si tenevano in caldo le pietanze in vendita. Un’istantanea del momento dell’eruzione e della vita di duemila anni fa.
La parola termopolio deriva dal greco termos, che significa caldo, e da poleo, che si traduce con il verbo vendere. Era quindi un luogo dove si poteva acquistare del cibo caldo da consumare al volo, in piedi perché non erano allestiti tavoli e sedie per sedersi, un po’ come si fa oggi con un panino al lampredotto o con la porchetta.
A Pompei di luoghi come questo ne sono stati rinvenuti un centinaio, a dimostrazione che grande era la richiesta e quindi diffusa l’abitudine di mangiare cibo di strada. I Romani erano molto indaffarati durante il giorno e dedicavano un tempo ridotto al pranzo. «In piedi si mangiavano zuppe a base di cereali e di legumi, come la puls fabata, cioè la zuppa di fave, che insieme ai cereali erano un piatto tipico della romanità: le fave venivano anche cotte in forno, tutte intere con il baccello, oppure fritte» spiega Marino Niola, antropologo e docente di Miti e riti della gastronomia contemporanea all’Università di Napoli Suor Orsola Benincasa. Un po’ come si fa oggi con le patatine fritte.
Banchetti e prelibatezze
Ricordando le fonti letterarie e osservando le raffigurazioni pittoriche, si desume che i Romani mangiavano anche seduti, quando le pietanze erano più complicate da consumare o c’era più tempo, e addirittura distesi sui triclini in occasione dei banchetti, che erano molto fastosi, «come narra lo scrittore Petronio nel suo Satirycon celebrando le leccornie e gli eccessi della cena di Trimalcione, la più famosa della storia, ricca di prelibatezze provenienti anche da Paesi lontani» spiega Niola.
Sì, perché i Romani, a differenza delle tendenze attuali, non avevano nessuna predilezione per il chilometro zero, che oggi rappresenta uno dei principi cardine di una cucina salutare e rispettosa dell’ambiente. D’altronde, ai tempi dei Romani la questione ambientale non esisteva e allora via con l’uvetta di Smirne, in Turchia, o il vino proveniente dall’isola greca di Samo, considerati eccellenze gastronomiche.
Curiosi e amanti della buona tavola
«I Romani del periodo imperiale erano dei gourmet, apprezzavano il cibo sia sotto l’aspetto quantitativo che qualitativo, e come accade a tutte le civiltà metropolitane, erano molto aperti alle novità, di cui si dimostravano assai curiosi non solo i più ricchi. Anche nei ceti meno abbienti il cibo era considerato non semplice sostentamento, ma fonte di benessere».
Ma come facevano a conservare i cibi che venivano da lontano, visto che non esistevano come oggi aerei che potevano attraversare il Mediterraneo in poche ore? Anche a questa difficoltà i Romani, popolo pratico oltre che godereccio, avevano trovato rimedio: «Erano bravissimi nell’arte della conservazione; avendo capito che il ghiaccio manteneva intatte le qualità dei cibi, lo utilizzavano abitualmente. Infatti nelle case dei ricchi non mancavano le cosiddette neviere, ambienti dove la neve caduta d’inverno veniva conservata per essere usata nei mesi più caldi» racconta Niola.
Salute e benessere
Se gli antichi abitanti della Capitale se ne infischiavano della filiera corta, non era così per la salute: sapevano bene cosa poteva indebolire l’organismo e avevano escogitato antidoti per evitarlo. «Era una consapevolezza empirica, non corroborata come oggi dalla scienza – precisa Niola -, eppure avevano intuizioni valide ancora oggi. I soldati, ad esempio, per diventare più resistenti e non ammalarsi avevano una razione alimentare che consisteva in pane e tre chilogrammi di cipolle».
Solo in tempi recenti è stato dimostrato che la cipolla ha proprietà antibiotiche se consumata crude, e che i Romani avessero consapevolezza delle caratteristiche energetiche e disinfettanti di certi cibi lo dimostra anche la posca, bevanda a base di aceto, nella versione dessert arricchita di miele e spezie, che consumavano in abbondanza.
Il termopolio di Pompei recentemente scoperto si presenta come un bel localino con un ampio bancone decorato da immagini di animali vivi e morti, che in parte corrispondevano alle pietanze che vi si potevano acquistare. Se oggi siamo invasi da immagini di cibo, fra libri di ricette e programmi televisivi, forse un po’ è anche colpa dei nostri avi: «La rappresentazione visiva del cibo era diffusa anche ai tempi dei Romani, che sono i primi a dipingere le nature morte, quelle composizioni di frutta e animali che avranno un rinnovato successo nel Cinque-Seicento. Sulle mura delle dimore patrizie le pitture servivano a magnificare la ricchezza e la potenza del padrone di casa, ma implicitamente erano un riconoscimento del ruolo del cibo nella società, non solo come status symbol ma anche fonte di benessere: spesso, nelle ville come nei termopoli, le immagini di cibo erano associate ad altre di amore e sesso».
Un risveglio dei sensi dedicato al piacere sotto tutti i punti di vista.