È fiorentino, ma al tempo stesso fa parte della comunità Lakota, una delle più importanti tribù dei nativi americani. I discendenti di Toro Seduto e di Cavallo Pazzo, per intendersi. Alessandro Martire ha 65 anni e ha dedicato la sua vita a difendere e a proteggere quel popolo e la sua cultura. Sottoposti per secoli a uno sterminio sistematico, a un vero e proprio genocidio, da parte dei “buoni e bravi” cowboy, adesso di nativi americani negli Stati Uniti ne sono rimasti pochi. Confinati nelle riserve, veri e propri ghetti di povertà, desolazione, alcolismo.
Alessandro Martire è anche l’ultimo discendente di Pietro Martire, che alla fine del Quattrocento fu cronista ufficiale dei viaggi di Cristoforo Colombo e per primo denunciò gli eccidi perpetrati dagli spagnoli sui popoli nativi. Ha presentato a Firenze, lo scorso mese a “Villa Vittoria cultura”, il suo libro Il pensiero dei nativi americani, edito da Giunti.
Quando inizia la storia di Alessandro con i Lakota?
Quando inizia la mia vita. Sono sempre stato curioso, affascinato da questo popolo. Nel 1978, appena finito il liceo, andai a vivere lì, in South Dakota, dove vivono i Lakota oggi.
Ha vissuto nella riserva insieme con loro?
Sì, per oltre dieci anni. Adesso ho la doppia cittadinanza, italiana e Lakota.
Quello che sappiamo, sui nativi americani, è che oggi vivono in uno stato di degrado. È così?
Sì. Il loro è il terzo mondo nel cuore stesso dell’America. Soffrono di alcolismo, di povertà, di analfabetismo. Non hanno soldi per comprarsi cibo di qualità o per fare studiare i figli. E ora, con Trump, la situazione è peggiorata.
L’Italia e Firenze stanno al fianco della comunità Lakota?
Sì. L’Italia, e Firenze in particolare, hanno giocato un ruolo fondamentale per loro. L’Italia è l’unico Paese che riconosce i Lakota come popolo sovrano, come nazione, e che intrattiene con loro rapporti internazionali. La Regione Toscana è l’unica che ha istituito il Giorno del ricordo in memoria del genocidio degli indiani d’America.
I rapporti proseguono?
Certo: il 28 settembre a Fiesole si inaugurerà una mostra sugli indiani Lakota, in collaborazione con il Comune e con la Regione Toscana. Io stesso ho aperto vari dipartimenti di studi di antropologia sugli indiani d’America, e ho portato molti studenti a laurearsi con me.
I Lakota sarebbero quelli che chiamavamo Sioux?
Sì. Ma è un termine dispregiativo, per loro. Sioux significa, nella loro lingua, “serpenti velenosi”. È chiaro che a loro non piaccia.
Nei western di John Ford I pellerossa erano i “cattivi”…e poi?
Poi sono venuti film fondamentali, come Piccolo grande uomo, Un uomo chiamato cavallo e Soldato blu che, all’inizio degli anni ‘70, hanno cambiato la prospettiva. È stata importante la denuncia del massacro di Sand Creek, grazie al film Soldato blu.
Dal cinema di ieri al cinema di oggi: lei è nel cast di un film presentato a Cannes lo scorso maggio!
Il film si chiama Testa o croce?, di due giovani registi, Alessio Rigo De Righi e Matteo Zoppis. Lo interpretano Alessandro Borghi, Nadia Tereszkiewiz e John C. Reilly. Il film è ambientato all’inizio del Novecento, quando il circo di Buffalo Bill venne in Italia, con i suoi nativi americani Lakota. Io sono stato consulente alle riprese e ho interpretato uno dei ruoli del film.
Perché secondo lei gli Stati Uniti non hanno avuto rispetto dei Lakota?
Per le materie prime che stanno nel sottosuolo delle loro terre. Prima hanno estratto l’oro, poi il petrolio. Adesso sono l’uranio e il litio i nuovi materiali preziosi, per il possesso dei quali l’uomo è pronto a tutto.
C’è un futuro per la comunità Lakota?
Sì, il futuro è l’autodeterminazione dei popoli nativi americani. E la possibilità di parlare la loro lingua, di insegnarla. Fino al 1998, la lingua Lakota era proibita, ne era vietato l’insegnamento. Oggi ci sono 2 milioni e mezzo di nativi americani, a fronte di almeno 60 milioni che sono stati sterminati. Bisogna salvarli, perché sono una risorsa preziosa dell’umanità.