«La mortadella è buonissima. Non c’è niente da fare, è proprio buona… La mortadella è comunista. Il salame è socialista. Il prosciutto, democristiano. Il prosciutto cotto è fascista».
Era capace di monologhi così, Francesco Nuti. Questo, mitico, fa parte di una conversazione con Antonio Petrocelli, nel parco delle Cascine a Firenze, nel film Caruso Pascoski. Come un equilibrista, Francesco camminava sul filo teso dell’assurdo. E ci portava con sé.
Il 12 giugno scorso, a Roma, Francesco Nuti è morto. Aveva 68 anni, e da tempo aveva perso una parte di sé: era scomparsa dal suo volto quella leggerezza beffarda, quell’aria da eterno ragazzino, un po’ spaurito e un po’ impunito. Quell’aria da Charlot dei nostri tempi, con la giacca sempre troppo larga e la camminata sempre un po’ incerta.
Francesco Nuti ci ha regalato film sentimentali e comici, momenti di emozione improvvisa, scintille abbaglianti di assurdo. Baci memorabili, da film americano, e momenti uguali alla nostra vita quotidiana. Con quella mamma che abita nello stesso pianerottolo, in Madonna, che silenzio c’è stasera. Francesco Nuti è stato il primo attore che era anche uno come noi. Uno di noi.
Dall’inizio con i Giancattivi ai film di cui è stato attore e regista, mai è venuta meno la sua umanità.
Memorie di un amico
Giovanni Veronesi, il regista di Manuale d’amore, lo ha conosciuto meglio di molti altri. E più di altri gli ha voluto bene. Fin da quando a vent’anni lo andava a cercare nel residence di Roma dove Nuti viveva. «Francesco si vide comparire davanti questo ragazzino che voleva a tutti i costi lavorare con lui. E mi prese».
Prosegue Veronesi: «Ho passato anni a scrivere i film insieme a lui, a fare merenda con lui, a ridere e scherzare con lui. A dormire in quel residence, su una poltrona, in mille posizioni scomodissime. Dopo qualche tempo la signora delle pulizie mi disse: “Che bravo giovane, tutte le mattine richiude la poltrona letto…”. Scoprii che era una poltrona letto! Francesco si era dimenticato di dirmelo, e io ho passato mesi con la schiena a pezzi. Però ero felice». Sono stati, da Tutta colpa del Paradiso – ma anche da prima, quando Giovanni collaborava senza che il suo nome fosse scritto nei crediti – quindici anni di successi.
«Francesco era pieno di voglia di giocare. Si metteva in ginocchio con un asciugamano in testa, entrava in cucina imitando E.T. e gridava “Telefono… casa!”».
Gli faccio la domanda più difficile: che cosa successe, a un certo punto, quando quella gioia si trasformò in depressione, portando Francesco Nuti verso l’abisso? La risposta si fa delicata. «Francesco sembrava un uomo leggero. Invece aveva delle paure profonde, che nessuno riusciva a guarire. Se guardi bene, nei suoi film, c’è sempre al fondo di tutto la paura dell’abbandono».
Natale al telefono
Anche a chi scrive, Francesco Nuti si è rivelato in modi molto insoliti. In più di una occasione. Il pomeriggio di Natale del 1994, uno di quei giorni in cui non succede niente, sento squillare il telefono di casa. «Oh Bogani! Ma non t’è piaciuto il mi’ film?». Il film era Occhiopinocchio, quello in cui Francesco aveva investito più aspettative, il più costoso e complicato. Non succede quasi mai che un regista chiami a casa un giornalista o critico cinematografico. Il pomeriggio di Natale, poi. Stemmo a parlare mentre il sole tramontava, e il tramonto diventava crepuscolo, e il crepuscolo diventava sera. Alla fine mi resi conto che, se Francesco Nuti passava tre ore del suo Natale a discutere con un giornalista, doveva essere molto solo.
Qualche anno dopo, estate 1999, mi diede appuntamento per un’intervista sul set di Io amo Andrea. All’appuntamento trovai un elicottero. «“Dai, Bogani, salta su!”. “Ma tu sei pazzo!”. “Dai, salta su! L’intervista la facciamo in elicottero!”». Così fu. E Nuti mi chiese: «Dimmi: ma quale regista t’ha mai portato in elicottero?». Terrorizzato, riuscii a mormorare: «Nessuno, Francesco». In effetti, Francesco, nessuno mi ha portato in elicottero con sé. E nessun attore e regista ho sentito tanto vicino come te: perché parlavi il mio stesso toscano, perché amavi e sbagliavi, perché eri orgoglioso e sconfitto, timido e sfacciato, proprio come siamo stati – o ci siamo sentiti – tutti noi, ragazzi magri di quegli anni.