“Per tanti anni non ho raccontato niente di quello che mi era successo da bambina, non per un motivo specifico, soltanto non ne parlavo, neppure in famiglia..“
In seguito, Miriam Romanin ha realizzato quanto fosse importante lasciare una testimonianza della sua straordinaria e dolorosa esperienza di vita e oggi possiamo ascoltarla nelle scuole toscane, elementari e medie, mentre racconta gli episodi della sua infanzia.
“Sono nata a Torino il 13 ottobre del 1938, l’anno delle leggi razziali. Mio padre era ispettore delle Assicurazioni Generali Venezia, mio nonno aveva uno studio fotografico e lavorava anche per la casa reale. Mio zio era amico di Umberto, il figlio del re. All’inizio non era chiaro quali sarebbero state le conseguenze dell’approvazione di queste norme contro gli ebrei”.
Quando vi siete accorti che la situazione stava diventando pericolosa?
“Mio zio, che era un bell’uomo e anche un dongiovanni, fu tradito da una sua amante, venne catturato e scomparve. Scoprimmo solo alla fine della guerra che era stato portato ad Auschwitz. Fu in seguito alla scomparsa di mio zio che decidemmo di lasciare Torino per Milano, con i miei genitori, i miei nonni, mia zia e mia cugina.
Ci costruimmo delle false identità, cambiammo cognome e per un po’ di tempo riuscimmo a confonderci nella folla della grande città, mio padre aveva persino trovato lavoro. Poi nel gennaio del ’45 fu fermato in piazza del Duomo a Milano, catturato e torturato in cella. Nonostante tutto non rivelò mai dove eravamo nascosti; comunque la polizia fascista era sulle nostre tracce”.
E riuscirono a trovarvi…
“Mia madre fu fermata mentre andava a ritirare la tessera annonaria in portineria e io, che per sicurezza ero rimasta in una pasticceria vicina, vidi mentre la stavano trascinando via con la forza e gridai “mamma”, correndo verso di lei. Fece finta di non riconoscermi, ma non servì: presero anche me.
Ci ritrovammo tutti, anche con mio padre, in cella nel carcere di San Vittore, in sette in una stanzetta piccola e buia; ricordo solo una finestrina in alto. Quello era l’ultimo smistamento prima dei treni diretti ai campi di concentramento”.
Fu dura la prigionia?
“In quel periodo mi ammalai di morbillo molto seriamente, ma ce la feci comunque a guarire. Durante la convalescenza gli agenti di custodia permettevano a me e mia cugina di muoverci per i corridoi del carcere; fu allora che vidi cose terribili.
I tedeschi aizzavano i loro cani contro chi si ribellava e più di uno morì sbranato. Vidi anche una ragazza stuprata da un tedesco davanti ai suoi genitori, impotenti dietro le sbarre. E poi montagne di topi che salivano sulle pareti”.
Sapevate dei campi di sterminio?
“Penso che i miei genitori lo sapessero; mia mamma implorava che gli americani colpissero il carcere durante i bombardamenti aerei, uccidendoci. Evidentemente temeva una fine ancora peggiore. La ferocia dei tedeschi era inimmaginabile: ci preparavano alle docce di Auschwitz, ci davano del sapone e ci facevano lavare tutti insieme. Vedere mia mamma e mia nonna nude, come non le avevo mai viste, mi turbò moltissimo”.
Intanto le truppe alleate, con il prezioso supporto dei partigiani, avanzavano…
“Eravamo già stati stipati su un camion senza aperture, pronti per essere portati al binario 21 della stazione di Milano e fatti salire sul treno per il nostro ultimo viaggio. Fu allora che gli americani aprirono le porte di San Vittore e fummo liberati. La gioia era indescrivibile, ma le crudeltà quel giorno non erano ancora finite. In preda all’euforia del momento, con mia mamma andammo in piazzale Loreto, dove i corpi di Mussolini e di Claretta Petacci pendevano a testa in giù sopra la folla. Non era un bello spettacolo per una bambina di 6 anni”.
Le fa male ricordare?
“No, mi libera, e so che è importante raccontare quanto è successo ai bambini di oggi, che sono davvero fantastici. Spesso mi chiedono: “Perché non piangi?” e io rispondo: “Perché devo piangere? Sono qua a raccontarlo”.