Paola Romagnani: studiare i piccoli per guarire i grandi

Un prestigioso finanziamento europeo per uno studio tutto toscano in corso all’Ospedale pediatrico Meyer. Intervista a Paola Romagnani, ordinario di Nefrologia dell’Università di Firenze e responsabile dell’Unità di Nefrologia e Dialisi dell’Azienda ospedaliero-universitaria Meyer

Un misto fra incredulità e gratitudine. Così Paola Romagnani, ordinario di Nefrologia dell’Università di Firenze e responsabile dell’Unità di Nefrologia e Dialisi dell’Azienda ospedaliero-universitaria Meyer, racconta la sua reazione alla notizia di aver vinto – unica ricercatrice italiana nel campo delle Scienze della vita – un Advanced grant, un contributo economico cioè, dell’European Research Council (Erc), dopo aver ottenuto, negli anni precedenti, un finanziamento per iniziare una nuova ricerca  e poi un Consolidator grant, cioè contributi per consolidare un programma di ricerca già avviato.

I Grant Erc sono la forma più ambita di finanziamento europeo e vengono attribuiti a ricercatori leader nel loro campo a livello internazionale per realizzare idee innovative. Il progetto quinquennale di Romagnani – denominato “Simposion”, acronimo di Sexual dimorphIsM in renal PrOgenitors to explain gender-Specificity In kidney physiOlogy aNd diseases – ha ricevuto un finanziamento pari a 2 milioni e 300.000 euro: «Appena saputo, il pensiero è subito andato a cosa si può fare con il finanziamento europeo, in termini di investimenti nella ricerca, nella strumentazione per i laboratori, nello staff e per le carriere dei giovani – afferma Romagnani -. La nostra ricerca nasce con l’identificazione delle cellule staminali renali. Una scoperta che ha dovuto fare i conti con uno scetticismo iniziale, ma che è stata avvalorata da diversi studi negli scorsi anni. Oggi indaghiamo il ruolo di queste cellule nelle malattie renali, come potrebbero riparare i danni quando si presentano e come si comportano nell’evolversi della malattia. Pensate che circa il 7% della popolazione in Italia ha una malattia renale cronica, anche se non lo sa, e che queste patologie sono la principale fonte di rischio cardiovascolare».

Una ricerca quindi che parte dai bambini, ma porterà vantaggi per tutti?

«Lavorare al Meyer mi permette di vedere tutte le fasi dello sviluppo delle malattie renali, che in genere hanno un decorso molto lungo e iniziano, appunto, in età pediatrica. Sì, la nostra ricerca permette di curare il bambino e l’adulto.

Quanto conta poter integrare ricerca e cura, come accade al Meyer?

Per me è fondamentale poter vedere il risultato pratico delle ricerche, valutare in clinica i problemi più importanti da risolvere e poi affrontarli in laboratorio. Ma è importante anche portare una visione scientifica nell’attività clinica quotidiana. Oggi la medicina non può fare a meno della ricerca: non si può approcciare un paziente senza una dimensione scientifica e un laboratorio collegato e vicino, come dimostra la medicina personalizzata.

Il Meyer, come sappiamo, è un’eccellenza, ma in Italia quale è lo stato di salute della ricerca?

Quello che manca sono le strutture di livello intermedio: c’è bisogno di un maggiore scambio con le università, ma per fare questo ci vogliono investimenti. E invece il nostro Paese spende per la ricerca molti miliardi in meno di Francia, Germania e Inghilterra. Così anche negli Erc ci sono tanti vincitori con cittadinanza italiana che vanno a realizzare i propri progetti all’estero.

Infine, da donna, medico e ricercatrice, nel suo settore c’è la parità di genere?

Purtroppo ancora no, anche se ci sono molti miglioramenti rispetto a venticinque anni fa. Ma tuttora è molto difficile conciliare la famiglia con un lavoro così impegnativo. Ce la fa chi, come me, ha una squadra che la sostiene anche a casa. Anche per questo ci vorrebbero più supporti a livello sociale, i talenti ci sono, ma le condizioni per metterli in pratica sono diseguali.

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