Chi sperava che l’esperienza del Covid ci rendesse migliori, si sbagliava e di molto. La crisi economica che ne è conseguita ha soltanto esacerbato egoismi, risentimenti e utilitarismi, aumentando le disuguaglianze. In pochi lo sanno ma oggi ci sono più bambini bisognosi di assistenza umanitaria che in qualsiasi altro momento dalla Seconda Guerra Mondiale in poi. Dopo la pandemia le emergenze globali si sono moltiplicate a causa di guerre e conflitti: circa 60, mai così tante dal 1945.
A partire da quella fra Russia e Ucraina, arrivata quasi allo scadere dei due anni, al più recente scontro fra Hamas e Israele con migliaia di vittime da entrambe le parti, passando dal dimenticato Nagorno Karabakh, regione del Caucaso che molti hanno difficoltà a localizzare su una cartina geografica, visto il poco spazio che il disastro umanitario ha trovato sui media occidentali. E poi Siria, Tigrai, Myanmar: i conflitti attraversano i continenti e fanno più vittime fra i civili che fra i militari.
I numeri parlano chiaro: oltre 400 milioni di bambini abitano in zone di guerra e 36,5 milioni sono sfollati dalle loro case. E quando non sono missili e bombe a uccidere e ferire, c’è la povertà che consegue alla guerra a fare vittime: sono 8 milioni i piccoli sotto i cinque anni a rischio di morte imminente per grave deperimento in 15 Paesi colpiti da crisi umanitarie (fonte: UNICEF).
Un affare di tutti
In questo contesto di venti di guerra, pare difficile intravedere uomini di pace. Il cardinale Matteo Maria Zuppi è uno dei pochi. Arcivescovo di Bologna, da maggio scorso su incarico di papa Francesco è al lavoro per allentare le tensioni nel conflitto in Ucraina. Da prete di strada, che per venti anni ha officiato a Trastevere, usa parole semplici per temi complessi: «La pace è un affare di tutti – sottolinea -, non è mai conquistata una volta per tutte e va coltivata. Richiede tanta attenzione, pazienza, capacità di guardare al domani: come un albero, che non spunta il giorno dopo che abbiamo piantato il seme. Bisogna credere e impegnarsi affinché quel seme cresca e diventi qualcosa. Dedicarsi alla speranza non significa dire “andrà tutto bene” e affidarsi a un certo ottimismo incosciente, inconsapevole, fatalista o pigro. Non si spera quando le cose vanno bene, ma quando vanno male: quando la notte è più profonda, le stelle brillano di più. Certo, non è facile in questo momento, perché la notte è davvero buia, ma proprio per questo dobbiamo essere uomini di speranza e tutti possiamo essere artigiani di pace: la speranza si rimbocca le maniche e si confronta con la sofferenza».
Alla pace oggi non servono parole altisonanti, ma tanta sostanza: «Nel mondo ci sono moltissime guerre: a volte nemmeno le conosciamo, anche se durano da decenni – aggiunge Zuppi -. Come dice il papa, stiamo vivendo una guerra mondiale a pezzi, che riguarda tutti, e non dobbiamo mai abituarci alla sua logica. La pace è come la salute, ci accorgiamo del suo valore solo quando ci viene a mancare: non dobbiamo aspettare che ci arrivi un missile in casa, per occuparcene. In tanti dicono: bisogna essere realisti e fare la guerra, parlare di pace è un’ingenuità per illusi, da figli dei fiori. Ma quelli che pensano che il mondo possa vivere in pace non sono gli “ultimi giapponesi”. Bisogna cercare la pace perché la guerra è una tragedia vera a cui non possiamo arrenderci».
La pace o il nulla
Nel nostro viaggio alla ricerca degli uomini di pace contemporanei abbiamo incontrato il filosofo Sergio Givone, già professore all’Università di Firenze. «Anche io mi sono chiesto: chi sono oggi le vere donne e i veri uomini di pace? La mia risposta è che oggi le uniche e vere persone di pace sono le vittime. I civili israeliani attaccati lo scorso 7 ottobre e i civili palestinesi di Gaza massacrati per la rappresaglia degli israeliani. E sono loro e soltanto loro perché si distinguono da chi invoca la pace non in maniera assoluta. Non si può pensare ad una pace vera ancorandola e condizionandola a qualcosa: sì alla pace, ma solo se i palestinesi riconoscono il diritto di Israele ad esistere (diritto sacrosanto), oppure specularmente, sì alla pace ma solo dopo il riconoscimento di uno Stato palestinese (altro diritto sacrosanto)».
Una pace è vera solo quando diventa un prius assoluto, una condizione che ha una precedenza inequivocabile: o la pace o il nulla. Dice ancora il filosofo: «In questo senso papa Francesco è l’unico che si è avvicinato di più a questo concetto, sebbene inascoltato, anche per motivi storici che non stiamo a sondare in questa sede. Mi vengono da citare i Salmi (27,3), “Parlano di pace ma nel cuore hanno la guerra”. Se prima di arrivare alla pace devo vendicarmi, contrattaccare, difendermi, allora parliamo di appelli vani. Anche se non si può non riconoscere un diritto alla difesa, bisogna subordinarlo alla pace, che deve venire prima di qualunque altra cosa. Se, per un miracolo, le popolazioni israeliane e palestinesi invocassero una pace incondizionata e senza discussione, avremmo una pace vera. Aveva ragione il grande scrittore israeliano Amos Oz quando diceva che la pace è quella cosa che comunque scontenterà entrambi i contendenti».
Il primo passo
Quale dunque la strada da percorrere? Givone ripone poche speranze in un’imposizione dall’alto, ad esempio da parte dell’Onu, «organizzazione piena di contraddizioni, né tanto meno da una portaerei statunitense nel Mediterraneo. La pace non si può imporre, perché prima o poi il più debole reagirà. E personaggi straordinari come Aldo Capitini o lo stesso Mahatma Gandhi proponevano proprio un ragionamento analogo. Non erano degli ingenui e conoscevano la complessità del mondo, ma avevano chiaro che l’alternativa alla pace è il nulla, il vuoto assoluto. E tutto questo riguarda i Balcani, la guerra russo-ucraina e vale per qualunque altro conflitto. La pace imposta è come un tappo che genera un’ebollizione sotterranea che non fa che peggiorare le cose, magari solo rimandandole».
E allora bisogna ripartire dal dialogo e avere il coraggio di fare il primo passo: «Io credo che chi lo fa sia in realtà il più forte, perché è capace di generare qualcosa di diverso, senza perdere le sue ragioni e i suoi diritti. La pace non è alternativa, ma va sempre di pari passo con la giustizia: se non c’è la pace, ci fai poco con la giustizia, se c’è la pace, senza giustizia dura molto poco. La via della pace è allora quella di ritrovare la giustizia» conclude Zuppi.
(con la collaborazione di Paola Minoliti e Raffaele Palumbo)