Etici o no?

I consumatori si dicono disposti a spendere di più per prodotti rispettosi dei diritti dei lavoratori, dell’ambiente e del benessere animale, ma i fatti dimostrano che il risparmio condiziona le scelte e che lo sfruttamento in agricoltura è ancora forte. Il caso virtuoso di Coop

Quanto siamo disposti a spendere in più facendo la spesa per eliminare lo sfruttamento dei braccianti agricoli? I consumatori possono essere considerati fra i responsabili di una filiera che porta a pagare i lavoratori della terra cifre irrisorie? 

Alla fine di giugno ha scosso le coscienze il caso di Satnam Singh, il bracciante indiano abbandonato morente dal suo datore di lavoro dopo un incidente nei campi di Latina. Singh era pagato un euro l’ora, così molti altri come lui. Ma quanto tempo è durata l’indignazione? Troppo poco. 

Il problema dei bassi compensi in agricoltura è il risultato di una serie di corresponsabilità che parte dai campi e arriva nei supermercati, coinvolgendo gli imprenditori agricoli, così come le catene della distribuzione e le imprese che si occupano della trasformazione, fino a interessare i consumatori. Ultimo debole anello della catena, orientati sempre più, a causa del calo del potere d’acquisto, a comprare cibo alle migliori condizioni economiche, spesso senza rendersi conto di cosa può nascondere un prezzo troppo basso.

Fatti e parole

Abbiamo chiesto ad un campione di cittadini toscani se e quanto sarebbero disposti a spendere in più per prodotti eticamente garantiti. Al questionario inviato da Modus ricerche alla metà di luglio hanno risposto in 572, che hanno dichiarato in maggioranza, l’85%, di acquistare già spesso o qualche volta prodotti etici.

In particolare, dichiarano di essere sensibili a tematiche ambientali, l’89%, al benessere degli animali, l’86%, al benessere dei lavoratori, l’85%, e sarebbero disposti a spendere in media il 12% in più per il rispetto di questi valori. A garantirli, secondo gli intervistati, al primo posto la conoscenza diretta del produttore o del rivenditore, poi i prodotti a marchio dell’insegna di distribuzione, seguiti dalla marca dell’azienda produttrice. 

Ma come si riconosce un prodotto etico? Secondo il 37% del campione un simbolo sulla confezione potrebbe aiutare nella scelta, così come una descrizione chiara e dettagliata sull’etichetta per il 33%, modalità preferita soprattutto dalle donne. E in questa dichiarata ricerca di garanzie, fra uomini e donne, sono quest’ultime a risultare più attente, mentre fra le generazioni la fascia più sensibile è quella fra i 25 e i 34 che batte in sostenibilità quella fra i 50 e i 64 anni. 

Queste le intenzioni, ma i fatti cosa raccontano? «Quando nelle nostre indagini chiediamo agli intervistati se sarebbero disposti a spendere di più per un prodotto più sostenibile, rispondono tutti di sì – spiega Maura Latini, presidente di Coop -, ma poi vediamo nella realtà che i consumi si stanno spostando verso il basso, anche perché le retribuzioni non crescono». 

Per un’agricoltura più giusta serve un cambio di mentalità: «Perché non vadano a caccia solo del prezzo più basso, ai clienti bisogna dare più informazioni, dire la verità, e cioè che la sostenibilità è fatta di ambiente, ma anche di etica, e che tutto questo ha un costo. A noi il compito di mantenerlo entro certi limiti» prosegue Latini. 

Sfruttati e caporali

Ma quando si parla di prodotti etici cosa si intende? Quali sono i maggiori problemi? Principalmente caporalato e sfruttamento dei lavoratori, che non riguardano solo l’agricoltura, ma le caratteristiche di questo settore – in particolare, il fatto che si basa sulla stagionalità e quindi su rapporti di lavoro di breve durata -, ne facilitano la diffusione. 

Il Rapporto agromafie e caporalato, pubblicato nel 2022 dall’osservatorio Placido Rizzotto del sindacato Cgil, stima che nei campi italiani vengano sfruttate circa 230mila persone – un quarto di tutti i braccianti -, fra queste 55mila sono donne. Dallo studio emerge che il lavoro irregolare ha un’incidenza elevata soprattutto in Puglia, Sicilia, Campania, Calabria e Lazio, dove si valuta che oltre il 40 per cento dei lavoratori sia irregolare. Ma anche nelle regioni del Nord sussistono condizioni critiche, con un tasso che oscilla tra il 20 e il 30 per cento. 

I braccianti vengono pagati in media 20 euro per una giornata di lavoro che va da 10 a 14 ore. Quindi meno di 2 euro l’ora, quando la paga regolare supera gli 8 euro. 

«Ad aprile si è chiusa “Piedi scalzi”, l’indagine dei Carabinieri che ha portato a scoprire in provincia di Livorno oltre 60 lavoratori del Pakistan e del Bangladesh che venivano reclutati da una decina di connazionali addirittura nelle vicinanze di un centro di accoglienza. Questi lavoratori erano pagati anche meno di 2 euro l’ora per lavorare nei campi di ortaggi e di ulivi in condizione di semi schiavitù», racconta Mirko Borselli, segretario generale Flai Cgil Toscana

Secondo la Cia, in Toscana è la carenza di manodopera a favorire il caporalato. «Bisogna premettere che il caporalato è più presente dove i margini di guadagno sono più bassi, ad esempio nella raccolta degli ortaggi, mentre lo è meno dove gli introiti sono più alti, come nel settore vitivinicolo, che nella nostra regione rappresenta la maggior parte del comparto; quindi l’impatto è minore che altrove, ma purtroppo non assente» aggiunge Borselli, che lamenta la mancata istituzione delle Sezioni territoriali della rete agricola del lavoro di qualità prevista dalla legge 199/2016 contro il caporalato. «I lavoratori sono i soggetti più deboli perché sono soprattutto immigrati e per paura di essere espulsi o per difficoltà linguistiche non hanno la forza di ribellarsi – spiega Borselli -. Come sindacato possiamo diventare un punto di riferimento per molti di loro».

Garanzie Coop

In questo panorama scoraggiante del mondo agricolo ci sono anche esempi virtuosi. Ad esempio, Coop già dal 1998 ha conseguito la certificazione in base allo Standard etico SA8000, prima azienda in Europa e ottava nel mondo.

Questa certificazione, usata per i prodotti a marchio Coop, garantisce il rispetto da parte dei fornitori di Coop di standard etici e comporta per le imprese impegni sui diritti dei lavoratori, fra cui il divieto di discriminazioni, la tutela della salute e della sicurezza, il rispetto di standard retributivi e dell’orario di lavoro.

Le aziende fornitrici sono monitorate da Coop attraverso ispezioni periodiche, aggiuntive rispetto a quelle previste per legge, e chi non mantiene gli accordi viene escluso, come accaduto a quattro aziende sospese negli anni scorsi per gravi problematiche. I controlli sono affidati anche ad enti di controllo esterni specializzati come Bureau Veritas e Csqa. 

Coop nel 2022 ha anche attivato una collaborazione con l’associazione No cap che si occupa di lotta al caporalato: è guidata da Yvan Sagnet, attivista camerunense che ha creato una filiera di agricoltura biologica certificata ed etica. 

«Serve un impegno congiunto di tutta la filiera, dal produttore al consumatore – conclude Maura Latini -, in un momento difficile come questo, in cui i prezzi del cibo sono aumentati del 20% in tre anni e i consumi sono diminuiti del 10%, è necessario impegnarsi in tutte le parti della filiera per garantire una corretta remunerazione per i lavoratori coinvolti nei processi produttivi, ma anche un prezzo giusto per il cliente finale». 

Glossario utile

Che cos’è

La certificazione SA8000:2014 riguarda la responsabilità sociale delle imprese e garantisce il rispetto dei diritti umani e del diritto del lavoro, la tutela contro lo sfruttamento minorile, la sicurezza e salubrità sul posto di lavoro. La Toscana è la prima regione al mondo per imprese che si sono avvalse di questa certificazione (il 16% del totale italiano).

Che significa?

Il caporalato è una forma illegale di reclutamento e organizzazione della mano d’opera, attraverso intermediari (caporali) che ingaggiano illegalmente operai giornalieri, senza rispettare le tariffe contrattuali sui minimi salariali.

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