Beppe da Crema, italiano che più italiano non si può. Anche se ha girato il mondo, anche se ha collaborato con alcuni fra i maggiori quotidiani internazionali e rappresenta all’estero la faccia bella dell’Italia.
Perché questo legame così stretto con le proprie origini?
«Perché nonostante tutto e per fortuna Italiani si rimane», precisa Beppe Severgnini, direttore del settimanale “7” e condirettore del “Corriere della Sera”, oltre che autore di tanti libri di successo. Il tono della conversazione al telefono è deciso e brillante, come quando lo vediamo nei talk televisivi interpellato sui temi più disparati. «Il mio ultimo libro – prosegue Severgnini – è un’autobiografia professionale: ho avuto tante belle esperienze nella mia vita lavorativa e ho voluto raccontarle, perché fossero utili ad altri. Anche se ho vissuto molto all’estero – Gran Bretagna, Stati Uniti, Russia -, e ho viaggiato nel mondo come corrispondente, ho fatto una scelta di fondo e cioè di restare legato al mio Paese e alla mia città, Crema. In tutti questi anni sono rimasto profondamente italiano e orgoglioso di esserlo».
Quanto è importante il concetto di nazionalità in un mondo sempre più globalizzato?
«I popoli continuano a esistere e così le nazioni, ma sono comunità che cambiano, non possiamo certo paragonare l’Italia attuale a quella di cento anni fa. Chi ha un’idea immutabile delle nazioni è proprio fuori strada». Alcune forze politiche stanno facendo dell’italianità una bandiera contro gli altri popoli. Che ne pensa? «Non condivido affatto chi contrappone l’essere italiani, ad esempio, all’essere europei. Siamo molto diversi certo da francesi e tedeschi – ed è per questo che l’Europa è così affascinante -, ma non siamo necessariamente contro, anzi dobbiamo collaborare. Ultimamente sta succedendo che il concetto di nazionalità sia utilizzato come elemento difensivo o aggressivo. Questo è tipico dei tempi insicuri. La parola nazionalismo non mi piace, i patrioti non sono nazionalisti. Io penso che essere italiani sia un motivo di orgoglio, ma anche che siamo in un club pieno di gente interessante che si chiama Europa».
Cosa continua a caratterizzarci come italiani, nel bene e nel male?
«Abbiamo quattro doti che cominciano con la lettera “i” che a volte ci creano problemi: siamo troppo intelligenti, siamo troppo intuitivi – e spesso per questo ci scordiamo il valore della preparazione -, siamo impulsivi, siamo ideologici e lo vediamo anche di questi tempi. In compenso ci sono cinque parole che cominciano con la “g” che invece ci aiutano: siamo gentili, generosi, abbiamo grinta, gusto e abbiamo il genio, la capacità cioè di trasformare una crisi in una festa, lo abbiamo dimostrato in passato e spero che accada di nuovo».
Quali doti esprimono gli italiani di successo all’estero?
«Per raggiungere incarichi di livello negli altri Paesi è indispensabile dimostrare innanzitutto di essere affidabili e precisi. Una volta provate queste caratteristiche, i manager italiani, ad esempio, hanno delle capacità, un’intuizione, un’elasticità, frutto della nostra storia, dei posti dove viviamo, della cultura in cui siamo a mollo, per cui all’estero riscuotono un grandissimo successo».
Nel suo libro ricorda la Firenze rinascimentale come culla di tanti geni. Perché fu possibile questa grande esplosione di creatività?
«Perché Firenze a quei tempi aveva la ricchezza e il fiorino, la prima moneta di scambio internazionale. Penso che un Paese debba essere benestante e crescere economicamente per produrre cultura. In Italia ultimamente le risorse sono diminuite e anche i recenti tentativi di aiutare chi è in difficoltà sono giusti in linea di principio, ma fatti con i mezzi sbagliati. Le persone si aiutano con il lavoro, con la produzione e con il benessere che poi permette di sviluppare anche la cultura».
Nel suo libro definisce l’Italia il Paese dei festival: è un buon segno del livello culturale degli italiani?
«Il libro ha un taglio ironico e divertente, mi prendo in giro e scherzo anche sul recente pullulare di festival culturali, cui vengo spesso invitato, che in realtà sono un fenomeno da considerare positivamente. Se c’è una buona organizzazione e offrono contenuti validi, sono pieni di persone interessate ad ascoltare. La gente ama stare insieme e imparare. Piuttosto, gli intellettuali e gli scrittori italiani dovrebbero rinnovarsi, evitare di ripetersi e correre qualche rischio. Il mio libro si intitola Italiani si rimane, ma in realtà parla di cambiamento, personale, professionale e nazionale. L’unico modo per rimanere italiani è cambiare, altrimenti diventiamo un paese arrabbiato, nevrotico e impoverito».
Giuseppe Severgnini, detto Beppe, è un giornalista, saggista e opinionista italiano. Firma de “il Giornale” di Indro Montanelli, del “Corriere della Sera” (di cui è condirettore), dell’“International New York Times”, è inoltre autore di diversi saggi e creatore del forum “Italians”. Su Rai3 ha condotto il programma televisivo L’erba dei vicini. Il suo ultimo libro Italiani si rimane è uscito da pochissimo in libreria per la casa editrice Solferino.
Lo dice la Crusca
Identità: viene dalla parola latina “identitas”, che a sua volta si connette con “idem”, “il medesimo”. Poiché non siamo tutti eguali e tirati con lo stampino, noi tutti abbiamo un’identità individuale, e una nostra “carta d’identità”, che certifica chi siamo. Tuttavia la nostra identità individuale non è isolata, ma si lega al gruppo sociale di cui facciamo parte, e anche all’educazione, a un paesaggio geografico, a un sistema di valori condiviso. Da qui l’“identità nazionale”, che è una sorta di “medesimezza”, come si potrebbe dire usando una parola ricercata, tra tutti coloro che abitano la stessa terra.