Il figlio aveva 9 anni e gli avevo chiesto di sparecchiare la tavola. «No. Oggi tocca a mia sorella». Aveva ragione. Ma la sorella non poteva per un sopraggiunto impegno. Quindi: «Fallo tu, dai. Sono quattro piatti, quattro bicchieri e quattro posate da mettere nel lavandino. È dura ma ce la puoi fare». Ce l’aveva fatta. Ma poi lo aveva detto: «Io non capisco perché abbiate fatto due figli se poi ne usate uno solo». Una domanda che, adesso, risuona nella sua radicalità: perché abbiamo fatto due figli? Perché non uno, non tre, non sette – si usava fino a poco tempo addietro – e non nessuno, come si usa molto adesso. Perché adesso abbiamo uno dei tassi di natalità più bassi del mondo? Perché non si fanno figli?
Non ho risposte precise e di risposte, come in tutti i problemi complessi, ce ne sono molte. Allora ripenso alle domande. Quando lo avevo detto a mia madre, donna della Toscana profonda: «Aspettiamo un figlio», lei aveva fatto un sospiro altrettanto profondo e poi emesso la sentenza: «Bellino!». È un riduttivo-esaltativo usato nella lingua di casa che in italiano si traduce con “Bellissimo!”. Poi aveva aggiunto: «Gl’è un patire finché ‘un si more». Fare figli è bellissimo ed è anche una sofferenza. Tutto insieme. Perché il tuo mondo cambia drammaticamente con l’arrivo di una nuova vita. C’era dentro anche la visione non propriamente ottimistica tipica di mia madre. Ma ne parliamo un’altra volta.
C’erano poi due mezzi pensieri che mi agitavano in quella stagione di attesa. Pensavo: «Quando andremo a mangiar in trattoriae dovrò pagare per tre». È un pensiero misero, lo so. Ma quello avevo e credo dica qualcosa sulla questione delle difficoltà economiche nel tirare su un figlio. Sulla mancanza di politiche vere di sostegno, sul welfare fatto tutto dai nonni. Quando ci sono. Secondo pensiero, più confuso e terrorizzante: mi vedevo ai colloqui con i professori. A rappresentare un figlio, a farmi carico di qualcosa. Non so cosa, ma lo ricordo come un compito futuro impossibile.
Credo, adesso, che la questione del futuro, di come ce lo rappresentiamo, c’entri assai con la voglia e il timore di fare figli. Sono, io, figlio di un tempo in cui il futuro era promessa: che sarebbe stato bello, che noi figli avremmo avuto una vita migliore, più comoda, più libera, con più mondo da vedere e libri da leggere, più sicura dalle guerre e dalla fame di quella che era toccata ai nostri genitori. Che ci sarebbe stato progresso. Automaticamente e per tutti. Un ciclo espansivo che è difficile vedere ora, dove il futuro è più fosco, oscuro. E i figli sono futuro.
Ai colloqui con i professori poi c’ero andato poco, sfruttando i benefici di un lavoro che mi riempiva i pomeriggi. La famiglia mi giudicava assente e pure inaffidabile. «Babbo – diceva la bambina -, ti ricordi almeno in che classe sono?». Io non me lo ricordavo, ma fingevo facendo l’offeso. Loro mi scrivevano su un bigliettino il nome del professore, che cambiava sempre in quel turbinio di supplenti. Così mi sedevo davanti al professore e dicevo: «Buongiorno sono il padre di…». Poi tiravo fuori il bigliettino, leggevo «…Giulia Cirri». A me sembrava una gag molto divertente. I professori mai una risata.
Allora Buon Natale: è la festa di un figlio che arriva.
di Massimo Cirri, psicologo e conduttore radiofonico
