L’infanzia con nonna Micia. Le prime recite in casa, con lo scalino davanti al salotto che diventava palcoscenico. E oggi, per lei, il sentimento del tempo, le paure di tutti, l’amore per le due figlie. La voglia di vivere altre quattro vite. «Mi sento – dice – una ragazza incastrata nel corpo di una donna di sessant’anni». Che, peraltro, non le daresti affatto. Venti di meno, come minimo.
Quella casa “meravigliosa”, che sta ancora lì, arroccata sulla roccia sopra la via Bolognese: la villa di Monterinaldi, progettata e costruita dal nonno Leonardo Ricci, dove Elena Sofia è nata, dove ha vissuto i primi anni dell’infanzia. Quelle grandi finestre, spalancate sulla valle che va giù, fino al Mugnone, e poi risale come in un ottovolante verso la collina di Fiesole, per una bambina devono essere state una continua meraviglia, un cinema continuo, incessante, sorprendente.
Elena Sofia, quando ha iniziato a desiderare di fare l’attrice?
Io, da quando ho memoria, sono innamorata della danza, della musica e dello spettacolo. Nonna Micia – in realtà si chiamava Angela, che è il nome che ho scelto per la suora di Che Dio ci aiuti, ma veniva chiamata da tutti Micia – è stata la mia prima spettatrice, la mia prima maestra, la prima a incoraggiarmi.
Che tipo di infanzia è stata la sua?
Tre anni nella casa bellissima di Monterinaldi, sulla via Bolognese. Poi, quando i miei genitori si sono separati, con mia mamma siamo andate a Roma. La mamma, prima scenografa donna in Italia, era un’artista eccezionale, ma si faticava a mettere insieme il pranzo con la cena. E io, per comprare la mia prima bambola, mi sono ritrovata a mettere i soldi da parte per sei mesi.
Per molti, Elena Sofia Ricci è suor Angela di Che Dio ci aiuti, la serie di Raiuno con il personaggio della suora detective più umana e ironica che si possa immaginare. Ma Elena Sofia è molte altre cose ancora: protagonista al cinema con Ferzan Ozpetek e con Sorrentino – era Veronica Lario in Loro -, vincitrice di tre David di Donatello, di tre Nastri d’Argento. Ma soprattutto, sempre combattiva: pronta a mettersi in gioco, senza risparmiarsi, nelle sfide che ritiene importanti.
Per richiamare l’attenzione sulle condizioni degli artisti, dei tecnici, di tutti quelli che lavorano nello spettacolo, e che spesso hanno visto il lavoro e la vita devastati dalla pandemia e dall’impossibilità di lavorare, Elena Sofia Ricci ha lottato per far istituire la “Giornata Nazionale dei Lavoratori dello Spettacolo”, che cade il 24 ottobre. «Il Governo ha riconosciuto il valore del nostro mestiere, ci ha dato una specie di patente» dice.
E nello stesso tempo, si è rimboccata le maniche e ha portato a teatro, sul palcoscenico più prestigioso d’Italia, quello della Pergola di Firenze, la pièce che ama di più, La dolce ala della giovinezza di Tennessee Williams. Lo scorso novembre Elena Sofia ha sentito di nuovo il suono degli applausi veri, e tanti, interpretando Alexandra del Lago, una donna sul viale del tramonto, alla deriva e “tossica di sesso”, che si nutre della giovinezza del suo partner.
Un bel modo per festeggiare quarant’anni di carriera.
E a gennaio sono diventati quarantuno! Quarantun anni di lavoro di cui non rinnego niente. Marcello Mastroianni mi diceva: «Lelù – lui mi chiamava così – Lelù, fai sempre di tutto: perché questo mestiere non si impara nella scuole, questo mestiere si impara facendolo».
Nessun rimpianto?
No: ho amato le commedie con Carlo Verdone, ma anche la serialità popolare, da I Cesaroni fino a suor Angela. Mi dispiace solo essermi accorta che il cinema italiano guarda sempre un po’ troppo al suo interno, come se non riuscisse a vedere gli attori che lavorano in televisione e a teatro.
Ha due figlie, Emma e Maria. Riesce a trovare tempo ed energie per loro? Che tipo di madre è?
Devo tagliarmi le mani per non viziarle troppo: se potessi regalare loro la luna, lo farei! Emma, venticinque anni, si è laureata al Dams in regia; quindi, mi sa che la ritroverò anche in ambito professionale. Maria ha diciotto anni, vuole studiare psicologia, e mi sembra pochissimo interessata al cinema.
Suo padre, Paolo Barucchieri, insegnava Storia dell’arte. Suo nonno Leonardo Ricci è stato uno dei grandi architetti del Novecento. La passione per il disegno le appartiene?
Ah, io sono negata! Non so neanche disegnare un omino, un’auto, una casa! Mi è andata un po’ meglio con la musica. Ho studiato chitarra classica per tanti anni. Adesso, per colpa di suor Angela, ho appeso la chitarra al chiodo: è difficile vedere una suora con le unghie lunghe da chitarrista classica.
Sono ancora tempi difficili per gli spostamenti; ci sono viaggi del passato che la emozionano, ricordandoli?
Uno dei primi, quando avevo ventiquattro anni: Messico e Guatemala. Io, incosciente, me ne andai praticamente da sola, a dormire alla ventura, in anni nei quali si sentivano episodi di cronaca drammatici proprio in quelle zone.
E oggi? Se potesse, dove andrebbe?
Vorrei vivere quattro vite per andare nei luoghi dove non sono stata: in Islanda, in Patagonia, giù giù fino alla Terra del Fuoco, e a San Pietroburgo, quella di Dostoevskij, che magari non esiste più, ma che io vorrei “annusare”, toccare con lo sguardo.
Ha delle paure? Quali?
Ho visto morire alcuni miei familiari quando erano ancora giovani. Le mie paure, dunque, sono quella di invecchiare male, e più ancora la paura della malattia, della morte. Nonostante la fede, che ho ricevuto come dono, sono un essere umano, e sono anch’io attraversata da molte paure.
Che cosa desidera?
Man mano che il tempo a disposizione si accorcia, capisci quanto sia prezioso. E ti viene l’urgenza di vivere intensamente, il più possibile. Non voglio buttare via neanche un secondo della vita che ho davanti.