I volti e le voci delle donne che hanno fatto la nostra storia. La vita delle ragazze, mogli, madri, che prima soffrirono gli orrori dei campi di concentramento e poi si spesero per liberare l’Italia dal nazifascismo. Furono anche loro le artefici del 25 Aprile e della Liberazione, ma il loro punto di vista è stato sempre sottovalutato.
Ha provato a dare loro voce, nel 1976, la storica Anna Maria Bruzzone, con una serie di interviste che ora si trovano nell’archivio sonoro dell’Università di Siena. Le voci di cinque donne deportate politiche nel lager di Ravensbrück, che fu il più grande campo di concentramento femminile sul territorio tedesco, finirono, nel 1978, in un libro Le donne di Ravensbruck (Ed. Einaudi, recentemente ristampato), scritto da Bruzzone e da Lidia Beccaria Rolfi, un’ex internata.
Bianca Paganini Mori, Livia Borsi Rossi, Lina e Nella Baroncini e Lidia Beccaria Rolfi sono le donne di Ravensbruck.
Bianca era di La Spezia, i suoi erano cattolici e antifascisti. Nell’ottobre 1943 fu deportata in Germania con la madre, un fratello e la sorella. A Dachau scese il fratello. Cinque giorni e cinque notti dopo furono a Ravensbruck dove le fecero fabbricare manometri e voltometri nel campo Siemens, utili all’industria di guerra tedesca. Bice, la sorella di Bianca, soffriva di dissenteria mentre la mamma, cardiopatica, morì quasi subito. «Di fronte all’esperienza del lager – raccontava Bianca – gli ex deportati provano il bisogno di testimoniare quell’orrore, ma c’è anche ripugnanza a parlare per il timore di non essere capiti».
Livia Borsi Rossi era nata nel 1902 a Sampierdarena in una famiglia proletaria e socialista. Aveva già tre figli quando fu deportata in Germania insieme al marito. Nel campo di Ravensbruck incontrò Bianca e Bice Paganini. Ebbe la sorte di rimanere lì solo un mese, a fine luglio 1945 partì insieme a Bianca e Bice e riuscì a tornare a Genova dove scoprì che suo padre e una delle sue bambine erano morti in un bombardamento. Suo marito non tornò più a casa.
Le sorelle Lina e Nella Baroncini erano nate a Bologna nel 1923 e nel 1925 in una famiglia di matrice socialista e proletaria. Erano studentesse quando furono deportate in Germania insieme a tutti i loro cari. Accadde nel febbraio del 1944. I fascisti perquisirono la casa e trovarono un pacco di manifestini. Finirono su un camion aperto che le portò, il 6 marzo, a Ravensbruck. Rimasero lì fino al 30 aprile. Rientrarono in Italia con un vagone ospedale. Era il 13 ottobre.
«Sono di estrazione contadina, ultima di cinque fratelli – raccontava Lidia Beccaria Rolfi -. Sono nata a Mondovì, nel 1925. Le prime parole che ho imparato a scrivere sono state “Eia, eia, eia, alalà”. Ricordo di non essere riuscita a convincere mia madre a donare la fede d’oro per il Duce e di essermi sentita una piccola italiana di serie B. A lei non interessava niente del fascismo e ha sempre rifiutato la tessera di Massaia rurale».
Divenuta maestra elementare, Lidia presto incontrò degli ebrei fuggiti da Saluzzo, poi alcuni membri della Resistenza. Iniziò a collaborare e a montare bombe a mano che nascondeva sotto il letto. Durante un rastrellamento fu deportata a Ravensbruck. Nelle baracche, raccontava, ogni oggetto doveva essere riposto in modo maniacale altrimenti erano schiaffi o bastonate. Il 26 aprile 1945 scoppiò un incendio: le SS, ormai sconfitte, non volevano lasciare traccia dei loro crimini.
«Le kapo radunarono le deportate: camminammo 9 giorni senza fermarci. Molte di noi morirono di freddo e di fame». Lidia ce la fece. Il 1° settembre 1945 tornò a casa e fino all’ultimo istante di vita ha testimoniato la disumana esperienza del lager. «Da queste donne impariamo che si può e si deve capire e resistere ‒ scriveva Bruzzone ‒, e se saremo in tanti a farlo, allora potremo sperare che i campi di sterminio divengano un fatto del passato».