Una scuola per imparare a gestire i grandi problemi del nostro tempo. E magari risolverli.
Forse non tutti sanno che i “politici” del futuro compiono una parte del loro percorso formativo in Toscana, più precisamente alla School of transnational government (Scuola di governo transnazionale), costola dell’Istituto universitario europeo di Firenze.
«Oggi è chiaro che molti dei principali problemi richiedono forme di gestione e di intervento che vanno oltre i confini degli Stati nazionali: immigrazione, cambiamenti climatici, sicurezza, innovazione tecnologica sono tematiche che necessitano di risposte globali. Per questo è necessario trovare forme efficaci, legittime e democratiche per governarle» spiega Miguel Poiares Maduro, direttore della scuola, in passato anche ministro per lo sviluppo regionale in Portogallo.
Partiamo dalla questione ambientale.
Uno Stato può fare le migliori scelte per ridurre l’impatto dell’inquinamento, ma se gli altri non lo seguono, diventano inefficaci. È un problema di responsabilità collettiva ed è necessario studiare forme di governo transnazionali, che però non sono facili da applicare perché gli Stati devono rinunciare a una parte della propria sovranità. La grande sfida è trovare soluzioni che siano accettate dai cittadini.
Potrebbe fare qualche esempio?
Anche se molto criticata l’Unione europea è il modello più sviluppato di governo transnazionale. Non è completamente efficace perché gli Stati nazionali hanno ancora molti poteri. La questione dell’immigrazione e dei rifugiati ad esempio: non si riesce a ridistribuire fra gli Stati membri i migranti che arrivano, per esempio, in Italia, perché molti Stati invocano la sovranità nazionale per non accettare le decisioni europee.
È diffusa la percezione che l’Europa condizioni la libertà nazionale, ma allo stesso tempo chiediamo all’Europa delle risposte, che risultano efficaci solo se gli Stati abdicano a una parte della sovranità nazionale: è paradossale.
Gli indici di gradimento dell’Unione europea sono ai minimi storici: perché?
Principalmente per due motivi. Il primo riguarda la trasformazione dei meccanismi di funzionamento della politica e della democrazia: la mancanza di fiducia nella classe politica e nelle élite ha minato anche la fiducia nel processo di integrazione europea. Il secondo è correlato alle trasformazioni che stiamo affrontando, con la stagnazione economica di una grande parte dei Paesi del continente. Quando i cittadini hanno la sensazione che la politica non offra risposte ai problemi più importanti, perdono la fiducia anche nel progetto di integrazione europea.
In particolare colpisce il distacco degli italiani, uno dei Paesi fondatori. A cosa è dovuto?
In Italia la stagnazione economica è stata particolarmente prolungata e in questo mondo interdipendente non è facile determinare quali siano le responsabilità dell’Unione europea e quelle dei governi nazionali. È molto facile quindi trasferire la responsabilità di quello che non va bene a livello di decisioni europee.
Il 26 maggio si vota per rinnovare il Parlamento europeo: qual è la sua previsione?
Le elezioni europee sono come il calcio, i pronostici si fanno solo alla fine della partita. Se devo proprio pronunciarmi, penso che avremo un Parlamento europeo molto più frammentato, con la presenza di nuovi movimenti, euroscettici ma probabilmente anche europeisti.
La tradizionale divisione fra sinistra e destra sta per essere sostituita da una nuova ripartizione fra chi difende una società chiusa, nazionalista e protezionista e chi è a favore di politiche aperte e interdipendenti. I movimenti politici più radicali saranno più presenti nel Parlamento europeo e di conseguenza sarà ancora più difficile trovare delle coalizioni per governare.
Secondo lei esiste un rischio per la democrazia?
La democrazia per avere successo deve essere basata sulla verità e riuscire a conciliare interessi antagonistici. Attualmente c’è molta disinformazione. Per scegliere dobbiamo conoscere: la verità nella democrazia non è il prodotto della volontà di una sola persona ma del pluralismo. In questo contesto politico di disinformazione e di radicalizzazione, la polarizzazione della società è così estrema che rende più difficile la riconciliazione fra esigenze diverse. Dobbiamo ricucire la base sociale e ricostruire la fiducia nella politica e nei suoi processi per favorire la riconciliazione fra volontà diverse.
Perché questa scuola proprio in Toscana?
Poter fruire delle conoscenze sviluppate dall’Istituto universitario europeo è un grande vantaggio. Poi c’è un fattore simbolico: Firenze è stata una capitale intellettuale e culturale. Infine, un motivo di attrazione è la qualità di vita. Dal 2020 la scuola si sposterà a Palazzo Buontalenti, prima sede dell’Istituto nel centro di Firenze. Si vuole rafforzare così il rapporto con la società civile e il mondo delle politiche pubbliche e superare l’isolamento in cui vivono spesso le strutture accademiche.
Un po’ di storia
L’idea di stabilire l’Istituto universitario europeo a Firenze risale alla fine degli anni Sessanta, ma è del 1972 la firma fra gli allora sei Stati membri – Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo e Olanda – per dar vita a un luogo per lo studio, la ricerca e lo sviluppo focalizzato sulle scienze umane. I primi corsi nel 1976, quando l’Istituto aprì le sue porte a 70 giovani ricercatori.
I quattro dipartimenti – Economia, Storia e civilizzazione, Legge, Scienze politiche e sociali – ogni anno ospitano sulle colline alle pendici di Fiesole oltre 600 ricercatori provenienti da più di 60 Paesi per partecipare a uno dei più prestigiosi programmi di ricerca riconosciuti in Europa e nel mondo. Nel 2017 nasce la School of transnational government.
La democrazia in Europa nel XXI secolo: sarà questo il focus della nona edizione di The State of the Union, la manifestazione che porterà i vertici dell’Unione europea a Firenze, per una tre giorni di dibattiti, conferenze ed eventi, dal 2 al 4 maggio.